Fatti i conti, erano passati due anni, tre mesi e dodici giorni da quando Jasper Gwyn aveva comunicato al mondo che smetteva di scrivere. Qualsiasi conseguenza la cosa avesse avuto sulla sua figura pubblica, lui non la conosceva. La posta arrivava per vecchia consuetudine a Tom, e da un po’ Jasper Gwyn gli aveva chiesto di non stare neppure a passargliela, tanto aveva smesso di aprirla. Giornali ne leggeva raramente, in rete non andava mai. Di fatto, da quando aveva pubblicato la lista delle cinquantadue cose che non avrebbe fatto mai più, Jasper Gwyn aveva finito per scivolare in un isolamento che altri avrebbero interpretato come un declino, ma che lui tendeva a vivere come un sollievo. Si era convinto che dopo dodici anni di esposizione pubblica innaturale, resa inevitabile dal suo mestiere di scrittore, gli spettasse una qualche forma di convalescenza. Immaginava, probabilmente, che quando avrebbe ricominciato a lavorare, nella sua nuova mansione di copista, tutti i pezzi della sua vita si sarebbero risvegliati e si sarebbero ricomposti in un quadro nuovamente presentabile. Così, quando Jasper Gwyn uscì di casa, quel lunedì, fu con la certezza che non stava entrando semplicemente nel primo giorno del suo nuovo lavoro, ma in una nuova stagione della sua esistenza. Questo spiega perché uscendo si diresse risolutamente verso il suo barbiere di fiducia, con la precisa intenzione di raparsi a zero.
Fu fortunato. Era chiuso per lavori di ristrutturazione.
Allora perse un po’ di tempo e per le dieci si presentò nel laboratorio del vecchietto di Camden Town, quello delle lampadine. Si erano messi d’accordo per telefono. Il vecchio prese in un angolo un vecchio scatolone di pasta italiana che aveva sigillato con un largo scotch verde e disse che era pronto. In taxi non volle mollarlo nel bagagliaio e per tutto il viaggio lo tenne sulle gambe. Dato che era una scatola piuttosto grande ma dal contenuto evidentemente leggero, c’era qualcosa di irreale nella agilità con cui scese dal taxi e salì i pochi gradini che portavano allo studio di Jasper Gwyn.
Quando entrò rimase per un attimo fermo, in piedi, senza mollare lo scatolone.
– Io qui ci sono già stato.
– Le piacciono le moto d’epoca?
– Non so neanche cosa siano.
Aprirono con cautela lo scatolone e tirarono fuori le diciotto Caterina de’ Medici. Erano confezionate una ad una in una morbidissima carta velina. Jasper Gwyn portò la scala che aveva comprato da un indiano dietro l’angolo e poi si tolse di mezzo. Il vecchio ci mise un tempo irragionevole, a furia di spostare la scala, e salire, e scendere, ma alla fine ottenne l’effetto sperato di diciotto Caterina de’ Medici installate in diciotto portalampada pendenti dal soffitto in geometrica disposizione. Anche spente facevano la loro bella figura.
– Accende lei?, chiese Jasper Gwyn, dopo aver accostato gli scuri alle finestre.
– Sì, è meglio, rispose il vecchio, come se un’inesatta pressione sull’interruttore avesse la possibilità di compromettere tutto. Probabilmente, nella sua mente malata di artigiano, l’aveva.
Si avvicinò al pannello elettrico, e con lo sguardo fisso alle sue lampadine premette l’interruttore. Rimasero un po’ in silenzio.
– Le ho detto che le volevo rosse?, chiese smarrito Jasper Gwyn.
– Zitto.
Per una qualche ragione che Jasper Gwyn non era in grado di capire, le lampadine, che si erano accese di un colore rosso brillante trasformando lo studio in un bordello, lentamente scolorarono fino ad attestarsi su una nuance tra l’ambra e l’azzurro che non si sarebbe potuto definire in altri termini che infantile.
Il vecchio borbottò qualcosa, soddisfatto.
– Incredibile, disse Jasper Gwyn. Era sinceramente commosso.
Prima di uscire, accese l’impianto che gli aveva preparato David Barber e nello stanzone incominciò a defluire una corrente di suoni che apparentemente trascinava, con prodigiosa lentezza, mucchi di foglie secche e nebbiose armonie di strumenti a fiato da bambini. Jasper Gwyn diede un’ultima occhiata intorno. Era tutto pronto.
– Non per farmi i fatti suoi, ma cosa ci fa qui dentro?, chiese il vecchio.
– Lavoro. Faccio il copista.
Il vecchio assentì col capo. Stava registrando come nella stanza non ci fosse alcuna scrivania e, invece, comparissero un letto e due poltrone. Ma sapeva che qualsiasi artigiano ha il suo stile particolare.
– Lo conoscevo, una volta, uno che faceva il copista, disse soltanto.
Non approfondirono.
Mangiarono insieme, in un pub dall’altra parte della strada. Quando si salutarono, con dignitoso calore, erano le tre meno un quarto. Mancava poco più di un’ora all’arrivo di Rebecca, e Jasper Gwyn si accinse a fare quello che, nel dettaglio, aveva già da giorni programmato di fare.