3.

Nell’alberghetto spagnolo Jasper Gwyn rimase, piacevolmente, per sessantadue giorni. Al momento di pagare il conto, nelle sue spese extra figuravano sessantadue tazze di latte freddo, sessantadue bicchieri di whisky, due telefonate, un salatissimo conto in lavanderia (centoventinove items) e l’importo per l’acquisto di una radio a transistor – il che può gettare una certa luce sulle sue inclinazioni.

Data la distanza, e l’isolamento, per tutto il suo soggiorno a Granada Jasper Gwyn non dovette tornare sull’argomento del suo articolo se non saltuariamente, tra sé e sé. Solo gli accadde, un giorno, di incontrare una giovane donna slovena con cui finì per intrecciare una piacevole conversazione, nel giardino interno di un museo. Era brillante e sicura di sé, parlava un discreto inglese. Gli disse che lavorava all’Università di Lubiana, nel dipartimento di storia moderna e contemporanea. Era in Spagna a fare delle ricerche: stava lavorando alla storia di una nobildonna italiana che, a fine Ottocento, girava l’Europa alla ricerca di reliquie.

– Sa, il traffico di reliquie, in quegli anni, era l’hobby di una certa aristocrazia cattolica, gli spiegò.

– Davvero?

– Pochi la conoscono, ma è una storia affascinante.

– Me la racconti.

Cenarono insieme, e al dessert, dopo aver a lungo raccontato di tibie e falangi di martiri, la donna slovena prese a parlare di sé, e in particolare di quanto si sentisse fortunata a fare il mestiere di ricercatrice, mestiere che lei considerava bellissimo. Aggiunse che naturalmente tutto quello che “stava attorno a quel mestiere” era agghiacciante, i colleghi, le ambizioni, la mediocrità, l’ipocrisia, tutto. Ma disse anche che per quanto la riguardava non sarebbero bastati quattro poveretti a farle passare la voglia di studiare e di scrivere.

– Sono lieto di sentirglielo dire, commentò Jasper Gwyn. Allora la donna gli chiese che mestiere facesse lui. Jasper

Gwyn esitò un po’, e poi finì per mentire a metà. Disse che per una dozzina d’anni aveva fatto l’arredatore, ma da due settimane aveva smesso. La donna ne parve dispiaciuta e gli chiese per quale ragione avesse abbandonato un lavoro che aveva l’aria di essere così piacevole. Jasper Gwyn fece un vago gesto nell’aria. Poi disse una frase incomprensibile.

– Un giorno mi sono accorto che non mi importava più di nulla, e che tutto mi feriva a morte.

La donna parve incuriosita, ma Jasper Gwyn fu abile a portare la conversazione su altri temi, scivolando lateralmente sul vizio di mettere la moquette in bagno, e poi dilungandosi sul primato delle civiltà meridionali, dovuto al loro conoscere il significato esatto del termine luce.

Molto tardi, quella sera, si salutarono, ma lo fecero così lentamente che la giovane donna slovena ebbe il tempo di trovare le parole adatte per dire che sarebbe stato bello, quella notte, passarla insieme.

Jasper Gwyn non ne era così sicuro, ma la seguì nella sua stanza d’albergo. Poi, misteriosamente, non risultò complicato mescolare in un letto spagnolo la fretta di lei e la cautela di lui.

Due giorni dopo, quando la donna slovena partì, Jasper Gwyn le lasciò una lista da lui compilata di tredici marche di whisky scozzese.

– Cosa sono?, chiese lei.

– Bei nomi. Te li regalo.

Jasper Gwyn trascorse a Granada ancora sedici giorni. Poi se ne andò anche lui, dimenticando nell’alberghetto tre camicie, una calza spaiata, un bastone da passeggio con testa d’avorio, un bagnoschiuma al sandalo e due numeri di telefono scritti a pennarello sulla tenda di plastica della doccia.

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