Il giorno dopo entrò nella stanza e Jasper Gwyn stava seduto su una sedia, in un angolo. Sembrava il custode di una sala, in un museo, che vigilava su un’opera d’arte contemporanea.
Istintivamente Rebecca si irrigidì. Guardò interrogativamente Jasper Gwyn. Lui si limitò a fissarla. Allora lei, per la prima volta da quando tutto era iniziato, parlò.
– Sono tre giorni che non viene, disse.
Poi si accorse dell’altro uomo. Stava in piedi, appoggiato al muro, in un angolo.
Due uomini, ce n’era un altro, seduto sul primo gradino della scala che portava al bagno.
Rebecca alzò il tono di voce e disse che non era nei patti, ma senza chiarire a cosa si stesse riferendo. Disse ancora che lei si riteneva libera di smettere quando le pareva, e che se lui pensava che per cinquemila sterline si potesse permettere di fare tutto quello che gli pareva si sbagliava di grosso. Poi rimase lì, immobile, perché Jasper Gwyn non aveva l’aria di voler rispondere.
– Che merda, lei disse, ma più che altro a se stessa. Andò a sedersi sul letto, vestita, e lì rimase, per un bel po’. C’era quella musica di David Barber.
Decise di non aver paura.
Loro, se mai, dovevano avere paura di lei.
Si svestì con gesti secchi, si alzò, e iniziò a camminare per la stanza. Stava lontano da Jasper Gwyn, ma passava accanto agli altri due uomini, senza guardarli, dove diavolo li avrà presi, pensò. E coi passi calpestava i foglietti di Jasper Gwyn, prima solo passandogli sopra, poi proprio stracciandoli con la pianta dei piedi, sentiva il duro delle puntine graffiarle la pelle – non le importava. Ne sceglieva alcuni, li distruggeva – altri li lasciava sopravvivere. Pensò che sembrava un servitore che la sera spegne le candele, in giro per il palazzo, e ne lascia accese alcune, per un qualche precetto della casa. Le piacque l’idea e a poco a poco cessò di farlo con rabbia, e prese a farlo con la mansuetudine che si sarebbe aspettata da quel servitore. Rallentò il passo, e perse durezza nello sguardo. Continuava a spegnere quei foglietti, ma con una cura diversa, mite. Quando le sembrò di avere finito – qualsiasi cosa avesse iniziato – tornò a sdraiarsi sul letto, e affondò la testa nel cuscino, chiudendo gli occhi. Non sentiva più rabbia, e anzi si stupì di sentire arrivare una sorte di quiete che, capì, stava aspettando da giorni. Nulla si muoveva attorno a lei, ma a un certo punto qualcosa si mosse, dei passi, e poi il secco rumore di una sedia, forse più sedie, spostate accanto al letto. Non aprì gli occhi, non aveva bisogno di sapere. Si lasciò sprofondare in un buio muto, e quel buio era se stessa. Lo poteva fare, e senza paura, e facilmente, perché qualcuno la stava guardando – se ne rese immediatamente conto. Per qualche ragione che non capiva, era finalmente sola, in modo perfetto, come soli non si è mai – o di rado, pensò, in qualche abbraccio d’amore. Finì lontano, perdendo qualsiasi nozione del tempo, sfiorando forse il sonno, a tratti pensando a quei due uomini, se l’avrebbero toccata – e al terzo uomo, l’unico per cui davvero era lì.
Aprì gli occhi, ebbe paura che fosse tardi. Nella stanza non c’era più nessuno. Accanto al letto, una sedia, una sola. Uscendo la sfiorò. Lentamente, col dorso di una mano.