8.

Tuttavia l’inverno gli sembrò inutilmente lungo, quell’anno, e il fatto di svegliarsi insonne al mattino presto, il buio ai vetri, prese a ferirlo.

Un giorno, che faceva freddo e pioveva, si trovò seduto nella sala d’aspetto di un ambulatorio, con un numeretto in mano – aveva convinto il medico a prescrivergli dei controlli, sosteneva di non sentirsi benissimo. Di fianco a lui andò a sedersi una signora con un trolley della spesa pieno e un ombrello marcio che le cadeva in continuazione. Una signora anziana, con un foulard impermeabile in testa. Se lo tolse, a un certo punto, e nel modo in cui diede un colpo ai capelli c’era qualcosa come il residuo di una seduzione interrotta tanti anni prima. L’ombrello però continuava a caderle da tutte le parti.

– Posso aiutarla?, le chiese Jasper Gwyn.

La donna lo guardò poi disse che negli ambulatori avrebbero dovuto esserci dei portaombrelli, nelle giornate di pioggia. Qualcuno, aggiunse, aveva solo da toglierli quando tornava il sole.

– E un ragionamento sensato, disse Jasper Gwyn.

– Certo che lo è, disse la donna.

Poi prese l’ombrello e lo appoggiò per terra, sdraiato. Sembrava una freccia, o il limite di qualcosa. Lentamente si formò una pozza d’acqua, intorno.

– Lei è Jasper Gwyn o è solo uno che gli assomiglia?, chiese la donna. Lo fece mentre cercava nella borsa qualcosa di piccolo. Con le mani che rovistavano là dentro alzò lo sguardo per essere sicura che lui avesse sentito la domanda.

Jasper Gwyn non se l’aspettava, così disse che sì, era Jasper Gwyn.

– Bravo, disse la donna, come se lui avesse risposto giusto a un quiz. Poi disse che la scena del molo, in Sorelle, era quanto di più bello avesse letto negli ultimi anni.

– Grazie, disse Jasper Gwyn.

– E anche l’incendio nella scuola, all’inizio dell’altro libro, quello lungo, l’incendio nella scuola è perfetto.

Alzò di nuovo lo sguardo su Jasper Gwyn.

– Io ho fatto l’insegnante, precisò.

Poi tirò fuori dalla borsa un paio di caramelle, erano rotonde, agli agrumi, e ne offrì una a Jasper Gwyn.

– Grazie, no, davvero, disse lui.

– Ma figuriamoci un po’!, disse lei. Lui sorrise e prese la caramella.

– Il fatto che siano sparse nella borsa non vuol dire che facciano schifo, disse lei.

– No, certo.

– Ma ho notato che la gente è propensa a crederlo. Jasper Gwyn pensò che era esattamente così, la gente non si fida di una caramella trovata sul fondo di una borsa.

– Credo sia lo stesso fenomeno per cui la gente diffida sempre un po’ degli orfani, disse.

La donna si voltò a guardarlo, stupita.

– O dell’ultima vettura della metropolitana, disse, con una strana felicità nella voce.

Sembravano due che da bambini erano stati insieme a scuola, e adesso snocciolavano i cognomi dei compagni di classe, riportandoli su da distanze enormi. Passò un istante di silenzio, tra loro, come un incanto.

Allora presero a chiacchierare e quando un’infermiera venne ad avvertire che era il turno del signor Gwyn, Jasper Gwyn disse che in quel momento proprio non poteva.

– Perderà il suo turno, disse l’infermiera.

– Non importa. Posso ripassare domani.

– Come crede, disse freddamente l’infermiera. Poi chiamò ad alta voce un certo Mr Flewer.

Alla donna con l’ombrello la cosa sembrò normalissima. Alla fine si ritrovarono soli, nella sala d’aspetto, e allora la donna disse che era proprio ora di andare. Jasper Gwyn le chiese se non doveva fare un esame, o qualcosa del genere. Ma lei disse che veniva lì perché era un posto caldo, ed era esattamente a metà tra casa sua e il supermercato. Inoltre le piaceva guardare la faccia della gente che doveva fare Tesarne del sangue, a digiuno. Sembra gente a cui hanno rubato qualcosa, disse. Già, confermò Jasper Gwyn, convinto.

La accompagnò a casa, tenendole l’ombrello aperto, con lei che non voleva mollare il trolley, e per strada continuarono a parlare fino a quando la donna non gli chiese cosa stava scrivendo adesso, e lui disse Niente. La donna camminò un po’ in silenzio, poi disse Peccato. Lo disse con un tono di rimpianto così sincero che Jasper Gwyn ne fu come addolorato.

– Finite le idee?, chiese la donna.

– No, quello no.

– E allora?

– Mi piacerebbe fare un altro mestiere.

– Tipo?

Jasper Gwyn si fermò.

– Credo che mi piacerebbe fare il copista.

La donna ci pensò un po’. Poi riprese a camminare.

– Sì, posso capire, disse.

– Davvero?

– Sì. E un bel mestiere, il copista.

– E quello che ho pensato.

– E un mestiere pulito, lei disse.

Si salutarono sui gradini che portavano alla casa di lei, e a nessuno dei due venne in mente di scambiare un numero di telefono o di accennare a una prossima volta. Solo, a un certo punto, lei disse che le spiaceva sapere che non avrebbe più letto un suo libro. Aggiunse che non tutti sono capaci di entrare nella testa della gente come sapeva fare lui, e che questo suo talento sarebbe stato un peccato chiuderlo in garage e lucidarlo una volta all’anno, come uno spiderino d’epoca.

Disse proprio così, come uno spiderino d’epoca. Poi sembrò aver finito, ma in realtà aveva da parte ancora qualcosa.

– Fare il copista c’entra col copiare qualcosa, no?, chiese.

– Probabilmente.

– Ecco. Ma non atti notarili o numeri, la prego.

– Cercherò di evitare.

– Veda se trova qualcosa tipo copiare la gente.

– Sì.

– Come sono fatti.

– Sì.

– Le verrà bene.

– Sì.

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