48.

Il quarto ritratto Jasper Gwyn lo fece a un ragazzo di trentadue anni che dopo aver studiato economia con splendidi risultati si era inchiodato a cinque esami dalla fine e adesso faceva il pittore, con qualche successo. I genitori – entrambi esponenti della upper middle class londinese – non avevano apprezzato. Fino a qualche anno prima era stato un buon nuotatore, e adesso aveva un fisico incerto, come riflesso in un cucchiaio. Lo muoveva lentamente eppure senza sicurezza, così l’impressione era che vivesse in un posto stracolmo di oggetti fragilissimi che solo a lui era dato di percepire. Anche la luce dei suoi quadri – paesaggi industriali – sembrava esser qualcosa di cui solo lui fosse al corrente. Da un po’ di tempo aveva pensato di tentare dei ritratti, soprattutto di bambini, e quando era vicino a capire cosa davvero lo interessasse in quella possibilità si era imbattuto, per caso, nell’annuncio di Jasper Gwyn. Gli era parso un segno. In realtà quello che si aspettava era un incontro dove gli sarebbe stato possibile, a lungo e nella quiete di uno studio, conversare sul senso del ritrarre dei viventi, così nei primi giorni lo sconcertò il silenzio che Jasper Gwyn, con fermezza, pretendeva da lui e riservava a se stesso. Aveva appena iniziato ad abituarsi, e ad apprezzare quella forzatura al punto da prenderla in considerazione come regola da adottare, quando accadde una cosa che gli sembrò normale, ma che in effetti non lo era. Mancava forse un’ora alle otto, e qualcuno bussò alla porta. Vide che Jasper Gwyn non faceva cenno di essersene accorto. Ma da fuori ripresero a bussare, e continuarono a farlo con seccante insistenza. Allora Jasper Gwyn si alzò – era seduto per terra, appoggiato alla parete, in un angolo che sembrava essere la sua tana – e con un’espressione di infinita incredulità sul volto andò alla porta e la aprì.

C’era quel ragazzo ventenne, e aveva un cellulare in mano.

– E per lei, disse.

Jasper Gwyn era a torso nudo, con i suoi soliti pantaloni da meccanico. Non ci poteva credere. Prese il cellulare.

– Tom, sei impazzito?

Ma dall’altra parte non rispose la voce di Tom. Si sentiva solo una persona piangere, di un pianto molto piccolo.

– Pronto!

Sempre quel pianto.

– Tom, che cazzo di scherzo è?, la vuoi piantare? Allora da quel pianto piccolo uscì la voce di Lottie per dire che Tom era stato male. Era in ospedale.

– In ospedale?

Lottie disse che non andava affatto bene, poi ricominciò a piangere, e alla fine disse se per favore lui poteva correre subito lì, glielo chiedeva per favore. Poi gli disse il nome dell’ospedale e l’indirizzo, perché era una donna pratica, lo era sempre stata.

– Aspetta, disse Jasper Gwyn.

Rientrò nello studio e andò a prendere il suo bloc-notes.

– Mi puoi ripetere?, chiese.

Lottie ripeté il nome e l’indirizzo, e Jasper Gwyn li scrisse su uno di quei foglietti color crema. Mentre vedeva l’inchiostro blu rimanere sulla carta ad annotare l’orrore di un nome da ospedale e la prosa di un arido indirizzo si ricordò di come qualsiasi incantesimo sia fragile oltre ogni dire, e velocissima la vita nel suo rapinare.

Disse al ragazzo che bisognava interrompere. D’improvviso lo vide sconfinatamente nudo – e in modo grottescamente inutile.

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