Quello delle lampadine potrà sembrare un punto di dubbia rilevanza, ma per Jasper Gwyn era invece diventato una questione cruciale. C’entrava con il tempo. Benché non avesse ancora la minima idea di che gesto potesse mai essere scrivere un ritratto, si era fatto una certa idea della sua possibile durata – come di un uomo che cammina nella notte è possibile decifrare la distanza e non l’identità. Aveva escluso da subito una cosa veloce, ma anche gli riusciva difficile pensare a un gesto abbandonato a una fine casuale e magari lontanissima. Così aveva incominciato a misurare – sdraiato per terra, nello studio, in assoluta solitudine – il peso delle ore, e la consistenza dei giorni. Aveva in mente una peregrinazione, simile a quella che aveva visto in quei quadri, quel giorno, e si era ripromesso di intuire la velocità del passo che l’avrebbe assolta e la lunghezza del cammino che l’avrebbe portata a destinazione. C’era da individuare la velocità a cui si sarebbero dissolti gli imbarazzi e la lentezza con cui sarebbe risalita in superficie una qualche verità. Si rese conto che, analogamente a quanto succede nella vita, solo una certa puntualità poteva rendere compiuto quel gesto – come felici alcuni istanti dei viventi.
Alla fine si era convinto che trentadue giorni potessero rappresentare una prima, credibile approssimazione. Stabilì che avrebbe tentato con una sessione di lavoro al giorno, per trentadue giorni, quattro ore al giorno. E lì arrivava il momento delle lampadine.
Il fatto è che non riusciva a immaginarsi qualcosa che finiva bruscamente, allo scadere dell’ultima seduta, in modo burocratico e impersonale. Era evidente che la fine di quel lavoro avrebbe dovuto avere un suo andamento elegante, perfino poetico, e possibilmente imprevedibile. Allora gli venne in mente la soluzione che aveva studiato per la luce – diciotto lampadine appese al soffitto, a distanze regolari, in bella geometria – e finì per immaginare che intorno al trentaduesimo giorno quelle lampadine iniziassero a spegnersi a una a una, a caso, ma tutte in un lasso di tempo non inferiore a due giorni e non superiore a una settimana. Vide lo studio scivolare in un buio a chiazze, secondo uno schema aleatorio, e arrivò a fantasticare su come si sarebbero spostati, lui e il modello, per usare le ultime luci, o al contrario per rifugiarsi nel primo buio. Si vide distintamente alla luce fioca di un’ultima lampadina, dare tardivi ritocchi al ritratto. E poi accettare il buio, al morire dell’ultimo filamento.
È perfetto, pensò.
Per questo si ritrovò davanti al vecchietto, a Camden Town.
– No, dovrebbero morire e basta, senza agonizzare e senza fare rumore, possibilmente.
Il vecchietto fece uno di quei gesti indecifrabili che fanno gli artigiani per vendicarsi del mondo. Poi spiegò che le lampadine non erano creature facili, risentivano di un sacco di variabili, e avevano spesso una loro forma di imprevedibile follia.
– Di solito, aggiunse, il cliente a questo punto dice: Come le donne. Me la risparmi, per favore.
– Come i bambini, disse Jasper Gwyn.
Il vecchietto assentì col capo. Come tutti gli artigiani parlava solo lavorando, e nel suo caso questo significava tenere tra le dita delle piccole lampadine, quasi fossero state delle uova, e immergerle in una soluzione opaca, dal vago aspetto di distillato. Lo scopo dell’operazione era palesemente imperscrutabile. Le asciugava poi con un phon vecchio come lui.
Persero molto tempo a divagare sulla natura delle lampadine, e Jasper Gwyn finì per scoprire un universo di cui non aveva mai sospettato l’esistenza. Gli piacque particolarmente venire a sapere che le forme delle lampadine sono infinite, ma sedici sono quelle principali, e per ognuna c’è un nome. Per un’elegante convenzione, sono tutti nomi di regine o principesse. Jasper Gwyn scelse le Caterina de’ Medici, perché sembravano lacrime sfuggite a un lampadario.
– Trentadue giorni?, chiese il vecchietto quando decise che quell’uomo si meritava il suo lavoro.
– Quella sarebbe l’idea.
– Bisognerebbe sapere quante volte le spegne e le accende.
– Una volta, rispose impeccabile Jasper Gwyn.
– Come lo sa?
– Lo so.
Il vecchio si fermò e alzò lo sguardo verso Jasper Gwyn.
Lo fissò, per così dire, nel filamento degli occhi. Cercò qualcosa che non trovò. Una crepa. Allora riabbassò lo sguardo sul suo lavoro e fece ripartire le mani.
– Bisognerà avere molta cura a trasportarle e a montarle, disse. Lei sa tenere in mano una lampadina?
– Non me lo sono mai chiesto, rispose Jasper Gwyn.
Il vecchietto gliene porse una. Era una Elisaveta Romanov. Jasper Gwyn la strinse con cautela nel palmo della mano. Il vecchietto fece una smorfia.
– Usi le dita. Così l’ammazza. Jasper Gwyn ubbidì.
– Innesto a baionetta, sentenziò il vecchietto scuotendo la testa, se le do quelle a vite capace che me le fa fuori prima ancora di accenderle. E si riprese la sua Elisaveta Romanov.
Rimasero d’accordo che nove giorni dopo il vecchietto avrebbe consegnato a Jasper Gwyn diciotto Caterina de’ Medici destinate a spegnersi in un arco di tempo che sarebbe variato tra le settecentosessanta e le ottocentotrenta ore. Si sarebbero spente senza agonizzare in inutili lampi, e silenziosamente. Lo avrebbero fatto a una a una, secondo un ordine che nessuno avrebbe potuto prevedere.
– Ci siamo dimenticati di parlare del tipo di luce, disse Jasper Gwyn quando già stava per uscirsene.
– Come la vuole?
– Infantile.
– D’accordo.
Si salutarono stringendosi la mano, e Jasper Gwyn si accorse di farlo con cautela, come tanti anni prima era solito fare con i pianisti.