Erano quadri grandi, tutti simili, come la ripetizione di un’unica ambizione, all’infinito. C’era sempre una persona, nuda, e poco altro intorno, una stanza vuota, un corridoio. Non erano persone belle, erano corpi ordinari. Semplicemente stavano – ma particolare era la forza con cui lo facevano, quasi fossero sedimenti geologici, frutto di metamorfosi millenarie. Jasper Gwyn pensò che erano pietre, ma morbide, e vive. Gli venne voglia di toccarle, era convinto che fossero tiepide.
A quel punto se ne sarebbe anche andato, bastava così, ma fuori continuava a diluviare e allora Jasper Gwyn, senza sapere che questo avrebbe segnato la sua vita, si mise a sfogliare un catalogo della mostra: ce n’erano tre, aperti, su un tavolo di legno chiaro – quei soliti libroni dal peso irragionevole. Jasper Gwyn constatò che i titoli dei quadri erano quelli un po’ idioti che ci si poteva aspettare (Uomo con mani sul grembo), e che accanto a ogni titolo era registrata la data di esecuzione. Notò che il pittore ci aveva lavorato per anni, più meno una ventina, senza che apparentemente fosse cambiato nulla nel suo modo di vedere le cose, o nella sua tecnica. Semplicemente aveva continuato a fare – come se fosse stato un unico gesto, solo molto lungo. Jasper Gwyn si chiese se era stata la stessa cosa per lui, nei dodici anni in cui aveva scritto, e mentre cercava una risposta capitò nell’appendice del libro, e lì c’erano delle fotografie fatte mentre il pittore lavorava, nel suo studio. Senza accorgersene si piegò un poco, per vedere meglio. Lo colpì una foto in cui il pittore se ne stava placidamente in poltrona, girato verso una finestra, a guardare fuori; a pochi metri da lui, una modella che Jasper Gwyn aveva appena visto in uno dei quadri esposti nella galleria se ne stava nuda sdraiata su un divano, in una posizione non molto dissimile da quella in cui era stata fermata sulla tela. Anche lei sembrava guardare nel vuoto.
Jasper Gwyn ci vide un tempo che non si aspettava, lo scorrere di un tempo. Come tutti, si immaginava che quel genere di cose andasse nel solito modo, con il pittore al cavalletto e il modello al suo posto, immobile, entrambi impegnati in un passo a due di cui conoscevano le regole – poteva immaginare le chiacchiere sciocche, intanto. Ma lì era diverso perché pittore e modello sembravano piuttosto aspettare, e si sarebbe detto aspettassero ognuno per conto proprio – e qualcosa che non era il quadro. Veniva da pensare che aspettassero di depositarsi sul fondo di un enorme bicchiere.