– Ritratti?
– Sì, perché?
Tom Bruce Shepperd studiò bene le parole.
– Jasper, tu non sai disegnare.
– Infatti. L’idea è quella di scriverli.
Un paio di settimane dopo quella mattina dalla gallerista, Jasper Gwyn aveva telefonato a Tom per dirgli che c’era una novità. Voleva anche dirgli che la smettesse di mandargli contratti da firmare che lui tanto non apriva nemmeno. Ma principalmente gli telefonò per quella storia della novità.
Aveva da dirgli che dopo aver cercato a lungo un nuovo lavoro da fare, adesso lo aveva trovato. Tom non la prese bene.
– Tu ce l’hai un lavoro. Scrivi libri.
– Ho smesso, Tom, come te lo devo ripetere?
– Non se n’è accorto nessuno.
– Cosa vuoi dire?
– Che puoi anche riiniziare domani.
– Scusa, ma se anche io decidessi per assurdo di riprendere a scrivere, con che faccia lo farei, secondo te, dopo quello che ho scritto sul “Guardian”?
– La lista? Geniale provocazione. Operazione avanguardistica. E poi chi vuoi che se la ricordi?
Tom non era solo il suo agente, era l’uomo che l’aveva scoperto, dodici anni prima. Andavano allo stesso pub, allora, e una volta erano rimasti fino alla chiusura a parlare di cosa avrebbe scritto Hemingway se non si fosse sparato con un fucile da caccia all’età di sessantadue anni.
– Un beato cazzo di niente, aveva sostenuto Tom. Ma invece Jasper Gwyn era di tutt’altra opinione e alla fine Tom aveva intuito, nonostante le quattro birre scure, che quell’uomo capiva di letteratura, e gli aveva chiesto che mestiere facesse. Jasper Gwyn glielo aveva detto e Tom se lo era fatto ripetere, perché proprio non ci credeva.
– Avrei detto professore, o giornalista, cose così.
– No, niente del genere.
– Be’, è un peccato.
– Perché?
– Non ne ho la più pallida idea, sono ubriaco. Lei sa cosa faccio io?
– No.
– Agente letterario.
Aveva tirato fuori un biglietto da visita e l’aveva porto a Jasper Gwyn.
– Se per caso un giorno le succedesse di scrivere qualcosa non mi faccia il torto di dimenticarsi di me. Sa, succede a tutti, prima o poi.
– Cosa?
– Di scrivere qualcosa.
Aveva passato un istante a riflettere.
– Anche di dimenticarsi di me, naturalmente.
Poi non ne avevano più riparlato, e quando si trovavano al pub volentieri se ne stavano insieme, spesso a parlare di libri, e di scrittori. Ma un giorno Tom aveva aperto una busta gialla, enorme, che gli era arrivata con la posta del mattino, e dentro c’era il romanzo di Jasper Gwyn. Aveva aperto a caso, c aveva preso a leggere da un punto qualunque. C’era una scuola che andava a fuoco. Era tutto iniziato da lì.
Adesso però tutto aveva l’aria di voler finire e Tom Bruce
Shepperd neanche aveva capito bene perché. La lista delle cinquantadue cose, va bene, ma non poteva essere solo quello. Tutti i veri scrittori odiano quel che c’è attorno al loro mestiere, ma nessuno smette per quello. Di solito basta un po’ di alcol in più, o una moglie giovane con una certa propensione a spendere. Malauguratamente Jasper Gwyn beveva un bicchiere di whisky al giorno, sempre alla stessa ora, come se dovesse oliare un orologio. Inoltre non credeva nel matrimonio. Così sembrava non esserci nulla da fare. Adesso si era anche aggiunta quella storia dei ritratti.
– E una cosa molto riservata, Tom, mi devi giurare che non ne parlerai con nessuno.
– Puoi contarci, tanto chi vuoi che mi creda.
Quando Tom si era sposato con Lottie, una ragazza ungherese di ventitré anni più giovane, Jasper Gwyn aveva fatto da testimone, e durante la cena a un certo punto era salito in piedi su un tavolo e aveva recitato un sonetto di Shakespeare. Solo che non era di Shakespeare ma suo, un’imitazione perfetta. Gli ultimi due versi dicevano: se devo dimenticarti mi ricorderò di farlo, ma non chiedermi poi di dimenticare che me ne sono ricordato. Allora Tom lo aveva stretto tra le braccia, non tanto per il sonetto, di cui aveva capito poco, ma perché sapeva cosa doveva essergli costato salire su un tavolo e attirare l’attenzione della gente. L’aveva proprio stretto tra le braccia. Anche per questo, adesso, la storia dei ritratti non riusciva a prenderla bene.
– Prova a spiegarmela, chiese.
– Non so, ho pensato che mi piacerebbe fare dei ritratti.
– Okay, questo l’ho capito.
– Naturalmente non si tratterebbe di quadri. Vorrei scrivere dei ritratti.
– Sì.
– Ma tutto il resto sarebbe come con i quadri… lo studio, il modello, sarebbe tutto uguale.
– Li metti in posa?
– Qualcosa del genere.
– E poi?
– Poi mi immagino che ci vorrà un sacco di tempo. Ma alla fine mi metterò a scrivere, e quello che ne uscirà sarà un ritratto.
– Un ritratto in che senso? Una descrizione?
Jasper Gwyn ci aveva pensato a lungo. In effetti quello era il problema.
– No, una descrizione no, non avrebbe senso.
– I pittori fanno quello. C’è il braccio, e il pittore lo dipinge, finito lì. E tu che faresti? Scriveresti cose tipo “il candido braccio si appoggia mollemente” ecc. ecc.?
– No, appunto, non è neanche pensabile.
– E quindi?
– Non lo so.
– Non lo sai?
– No. Dovrei mettermi nelle condizioni di fare un ritratto e allora potrei scoprire cosa può voler dire, esattamente, scrivere invece di dipingere. Scrivere un ritratto.
– Cioè, adesso come adesso non ne hai la minima idea.
– Qualcosa, delle ipotesi.
– Tipo?
– Non so, immagino che si tratterebbe di riportare a casa quella gente.
– Riportarla a casa?
– Non lo so, non credo di riuscire a spiegartelo.
– Ho bisogno di un drink. Resta in linea, non pensare nemmeno di mettere giù.
Jasper Gwyn rimase con la cornetta in mano. Sentiva che Tom borbottava, sullo sfondo. Allora posò la cornetta e andò lento verso il bagno, mentre in testa gli giravano un sacco di idee, tutte che riguardavano quella storia dei ritratti. Pensò che Tunica cosa da fare era provarci, e d’altronde non sapeva certo dove voleva arrivare quando aveva iniziato il thriller sulle sparizioni in Galles, aveva giusto in mente un certo modo di procedere. Pisciò. E anche allora, se Tom gli avesse fatto spiegare prima di iniziare a scrivere cosa aveva in testa di fare, facilmente non avrebbe saputo cosa dire. Tirò lo sciacquone. Non è più insensato iniziare un romanzo, il primo, che affittare uno studio per fare dei ritratti senza sapere esattamente cosa voglia dire. Tornò al telefono e riprese la cornetta in mano.
– Tom?
– Jasper, posso essere sincero?
– Certo.
– Come libro sarà una palla colossale.
– No, non hai capito, non sarà un libro.
– E cosa, allora?
Jasper Gwyn si era immaginato che la gente avrebbe portato a casa quelle pagine scritte, e se le sarebbe tenute chiuse in un cassetto, o appoggiate su un tavolo basso. Come avrebbe potuto tenere una fotografia, o appendere un quadro alla parete. Questo era un aspetto della faccenda che lo entusiasmava. Niente più cinquantadue cose, giusto un accordo tra lui e quelle persone. Era come fargli un tavolo, o lavargli la macchina. Un mestiere. Avrebbe scritto cos’erano, tutto lì. Sarebbe stato, per loro, un copista.
– Saranno dei ritratti e basta, disse. Chi pagherà per farseli fare se li porterà a casa e la cosa finisce lì.
– Pagherà?
– Certo, la gente paga, no?, per farsi fare un ritratto.
– Jasper, quelli sono quadri, e oltretutto la gente ha smesso da anni di farsi fare ritratti, a parte la regina e un paio di rincoglioniti a cui crescono delle pareti da riempire.
– Sì ma i miei sono scritti, è diverso.
– -È peggio!
– Non lo so.
Rimasero per un po’ zitti. Si sentiva Tom che deglutiva il whisky.
– Jasper, forse è meglio che ne riparliamo un’altra volta.
– Sì, probabilmente sì.
– Ci dormiamo un po’ su e poi ne riparliamo.
– D’accordo.
– Devo metabolizzare.
– Sì, capisco.
– Per il resto va tutto bene?
– Sì.
– Hai bisogno di niente?
– No. Cioè, una cosa, forse.
– Dimmi.
– Conosci un broker immobiliare?
– Uno che cerca case?
– Sì.
– John Septimus Hill, è il migliore. Te lo ricordi?
A Jasper Gwyn sembrava di ricordare un uomo molto alto, dai modi impeccabili, vestito con curata eleganza. Era al matrimonio.
– Vai da lui, è perfetto, disse Tom.
– Grazie.
– Cos’è, cambi casa?
– No, pensavo di affittare uno studio, un posto giusto per tentare quel ritratto.
Tom Bruce Shepperd alzò gli occhi al cielo.