Con David non era il caso di fare troppi giri di parole e quindi Jasper Gwyn disse semplicemente che gli serviva qualcosa per sonorizzare il suo nuovo studio. Disse che non era capace di lavorare nel silenzio.
– Mai pensato a dei bei dischi?, chiese David Barber.
– Quella è musica. Io vorrei dei suoni.
– Suoni o rumori?
– Una volta non pensavi che ci fosse differenza.
Andarono avanti a parlare, camminando nel parco, mentre Martha Argerich inseguiva scoiattoli. Jasper Gwyn disse che quel che si immaginava era un loop lunghissimo e appena percepibile che foderasse giusto il silenzio, ammortizzandolo.
– Lunghissimo quanto?, chiese David Barber.
– Non so. Una cinquantina di ore? David Barber si fermò. Rise.
– Be’, non è esattamente uno scherzetto. Ti verrà a costare una certa cifra, amico.
Poi disse che voleva vedere il posto. E pensarci un po’, seduto lì. Così decisero di andare insieme allo studio dietro Marylebone High Street, il mattino dopo. Passarono il resto del tempo a ricordare i tempi andati, e a un certo punto David Barber disse che per un po’, anni prima, si era convinto che Jasper andasse a letto con la sua fidanzata di allora. Era una specie di fotografa svedese. No, è lei che andava a letto con me, disse Jasper Gwyn, io non ci capivo niente. Ci risero su.
L’indomani David Barber arrivò su una famigliare tutta scassata che sapeva di cane bagnato da lontano. Posteggiò davanti all’idrante, perché era il suo personale modo di contestare la gestione governativa dei fondi culturali. Entrarono nello studio e si chiusero la porta alle spalle. C’era un gran bel silenzio, a parte i tubi gorgoglianti, naturalmente.
– Bello, disse David Barber.
– Sì.
– Dovresti stare attento a quelle macchie di umidità.
– E tutto sotto controllo.
David Barber andò un po’ in giro per la stanza, e prese le misure di quel silenzio particolare. Ascoltò con attenzione i tubi, e valutò lo scricchiolio del pavimento di legno.
– Forse bisognerebbe anche sapere che tipo di libro stai scrivendo, disse a un certo punto.
Jasper Gwyn ebbe un momento di sconforto. Non si era ancora abituato all’idea che ci avrebbe messo una vita a convincere il mondo che non scriveva più. Era un fenomeno incredibile. Una volta un editor incontrato per strada si era caldamente complimentato con lui per il suo articolo sul “Guardian”. Poi subito dopo gli aveva chiesto: Cosa stai scrivendo adesso? Erano cose che Jasper Gwyn non era in grado di capire.
– Credimi, cosa io stia scrivendo non ha importanza, disse.
E spiegò che quel che gli sarebbe piaciuto era un fondale sonoro in grado di mutare come la luce durante il giorno, e quindi in maniera impercettibile e continua. Soprattutto: elegante. Questo era molto importante. Aggiunse anche che avrebbe voluto qualcosa in cui non c’era ombra di ritmo, ma solo un divenire che sospendesse il tempo, e semplicemente riempisse il vuoto di un trascorrere privo di coordinate. Disse che gli sarebbe piaciuto qualcosa di immobile come un volto che invecchia.
– Dov’è il cesso?, chiese David Barber. Quando tornò disse che accettava.
– Diecimila sterline più l’impianto di diffusione. Diciamo ventimila sterline.
A Jasper Gwyn piaceva pensare che stava bruciando tutti i suoi risparmi nell’azzardo di un mestiere che non sapeva neanche se esistesse. Voleva in qualche modo mettersi spalle al muro perché sapeva che solo in quel modo avrebbe avuto una chance di trovare, in se stesso, quello che cercava. Dunque accettò.
Un mese dopo David Barber venne a installare il sistema di diffusione e poi lasciò a Jasper Gwyn un hard disk.
– Goditelo. Sono sessantadue ore, mi è venuto un po’ lungo. Non trovavo il finale.
Quella notte Jasper Gwyn si sdraiò per terra, nel suo studio di copista, e fece partire il loop. Iniziava con quello che sembrava un rumore di foglie e andava avanti, muovendosi impercettibilmente, e trovando come per caso suoni di ogni tipo. A Jasper Gwyn vennero le lacrime agli occhi.