57.

Rebecca ci mise un po’ a rimettere in moto i pensieri. Lasciò perdere le incombenze che avrebbe dovuto assolvere, annullò tutti gli appuntamenti, lasciò sul tavolo, senza aprirli, i giornali che aveva comprato. Le dava fastidio vedere che le tremavano le mani – era perfino difficile capire se fosse rabbia o una qualche forma di spavento. Squillò il telefono e lei non rispose. Prese la sua roba e se ne uscì.

Sulla strada di casa, si sedette in un posto tranquillo, sui gradini di una chiesa, ai bordi di un piccolo giardino, e si costrinse a ricordare le parole di quella ragazzina. Cercava di capire cosa, di volta in volta, avevano mandato in pezzi. Tante cose, e alcune le sapeva delicate ma anche ferme, come le semplici illusioni non sono. Stranamente, prima che a se stessa pensò a Jasper Gwyn, come quelli che, rialzatisi da una caduta, controllano che non si siano rotti gli occhiali o l’orologio – le cose più fragili. Era arduo capire quanto quella ragazzina l’avesse ferito. Sicuramente aveva infranto una misura che fino a quel momento Jasper Gwyn aveva scelto come norma imprescindibile del suo curioso lavoro. Ma era anche possibile che tanta cura nel porre confini e restrizioni nascondesse in lui l’intimo desiderio di arrivare al di là di ogni regola, anche solo una volta, e a qualsiasi prezzo – come per arrivare fino in fondo a un suo certo cammino. Dunque era difficile dire se quella ragazzina era stata per lui un colpo mortale o l’approdo a cui da sempre tutti i suoi ritratti avevano mirato. Chissà. Certo quei nove giorni senza mettere piede nello studio facevano pensare a un uomo spaventato più che a un uomo arrivato – e il suo rimanere nascosto, poi, con calma ma determinazione. Sono gli animali feriti che si muovono così. Pensò allo studio, alle diciotto Caterina de’ Medici, alla musica di David Barber. Che peccato, si disse. Che immenso peccato se tutto dovesse finire qui.

Tornò verso casa, camminando lentamente, e solo allora le venne da pensare a sé, e a controllare le sue, di ferite. Per quanto la disgustasse ammetterlo, quella ragazzina le aveva insegnato qualcosa che la umiliava, e che aveva a che fare con il coraggio, o la spudoratezza, chissà. Cercò di ricordare i momenti in cui anche lei era stata davvero vicina a Jasper Gwyn, scandalosamente vicina, e finì per chiedersi cosa aveva sbagliato in quegli istanti, o cosa non aveva capito. Tornò con la memoria nel buio dello studio, quell’ultima notte, e si ricordò il nulla che era rimasto tra loro, incredula di non averlo saputo attraversare. Ma ancor più ripensò a quella mattina della morte di Tom, alla sua corsa da Jasper Gwyn e a tutto quello che era seguito. Si ricordava lo spavento di tutt’e due, e quella voglia di starsene chiusi lì dentro, insieme, più forte di ogni altra cosa. Si ricordava i propri gesti in cucina, i piedi nudi, il telefono che squillava senza che loro smettessero di parlare, a bassa voce. L’alcol bevuto, i vecchi dischi, le copertine dei libri, la confusione in bagno. E com’era stato facile sdraiarsi accanto a lui, e addormentarsi. Poi l’alba difficile, e lo sguardo atterrito di Jasper Gwyn. Lei che capiva e se ne andava.

Quant’era stato più preciso il gesto netto di quella ragazzina.

Che odiosa lezione.

Si guardò e si chiese se tutto non si poteva spiegare semplicemente con quel suo corpo, inadatto e sbagliato. Ma non c’era una risposta. Solo tristezze che da tempo non voleva più affrontare.

A casa, poi, si vide bella, allo specchio – e viva.

Fece quindi, per giorni, l’unico gesto che le sembrò appropriato – attendere. Seguì freddamente il moltiplicarsi sui giornali di servizi che riprendevano il curioso caso di Jasper Gwyn, e si limitò ad archiviarli, in ordine cronologico. Rispondeva al telefono, annotando diligentemente tutte le richieste e assicurando che presto sarebbe stata in grado di essere più utile. Non aveva paura, sapeva che doveva solo aspettare. Lo fece per undici giorni. Poi, un mattino, le arrivò in ufficio un grosso pacco, accompagnato da una lettera e da un libro.

Nel pacco c’erano tutti i ritratti, ognuno nella sua cartellina. Nella lettera Jasper Gwyn chiariva che erano le copie che aveva fatto per se stesso: la pregava di conservarle in un posto sicuro, e di non renderle pubbliche in nessun modo. Aggiungeva una minuziosa lista di cose da fare: restituire lo studio a John Septimus Hill, disfarsi dei mobili e degli arredi, liberare l’ufficio, annullare la mail con cui avevano lavorato, rendersi irreperibile ai giornalisti che eventualmente avessero provato a contattarla. Specificò che si era occupato personalmente di saldare tutti i conti in sospeso, e rassicurava Rebecca del fatto che al più presto le sarebbero giunte le sue spettanze, comprensive di una significativa liquidazione. Era sicuro che non avrebbe incontrato problemi.

Di cuore la ringraziava, e ancora una volta gli premeva dire che non avrebbe potuto desiderare una collaboratrice più precisa, discreta e piacevole. Si rendeva conto che un commiato più caldo sarebbe stato auspicabile sotto ogni aspetto, ma doveva ammettere, pur con rammarico, di non riuscire a fare di meglio.

Il resto della lettera era scritto a mano. Diceva così.


Forse dovrei spiegarle che la distanza da quella ragazzina era un teorema irrisolvibile, ma non saprei farlo senza rendermi ridicolo, o senza ferirla, forse. Della prima cosa non mi importa, ma la seconda mi creerebbe infinito disappunto. Voglia semplicemente credere che non si poteva fare altro.

Non si preoccupi per me, non sono infastidito per quel che è successo e ho in mente con precisione cosa devo fare adesso.

Le auguro ogni felicità, se la merita.

Per sempre grato, suo


Jasper Gwyn, copista


C’era poi una nota, dopo la firma, poche righe. Diceva che le allegava l’ultimo libro uscito dai cassetti di Klarisa Rode, e appena pubblicato. Si ricordava bene come quel giorno, al parco, quando le aveva portato il suo ritratto, lei avesse proprio un romanzo della Rode, in mano, e ne avesse parlato con grande entusiasmo. Così gli era venuto in mente che poteva essere un bel modo di chiudere il cerchio regalarle in questa circostanza quel libro: si augurava che leggerlo l’avrebbe deliziata.

Nient’altro.

Ma si può essere fatti così?, pensò Rebecca.

Prese il libro, se lo rigirò un po’ tra le mani, poi lo tirò contro il muro – un gesto che qualche anno dopo avrebbe ricordato.

Le venne in mente di cercare sul pacco e trovò soltanto un qualunque timbro postale londinese. Dove se ne fosse andato Jasper Gwyn non le era concesso evidentemente saperlo. Lontano – questo lo sentiva con assoluta certezza. Era tutto finito, e neppure con quella solennità a cui sempre avrebbe diritto il tramonto delle cose.

Si alzò, mise nell’agenda la lettera di Jasper Gwyn e decise che, per l’ultima volta, avrebbe fatto quello che le chiedeva. Non per dovere – per una forma di malinconica esattezza. Prese con sé, prima di uscire, i ritratti. Pensò che non leggerli sarebbe stato uno dei piaceri della sua vita. Arrivata a casa, li mise in fondo a un armadio, sotto a dei maglioni vecchi, e questo fu l’ultimo gesto che le dettò un qualche rimpianto – sapere che nessuno avrebbe mai saputo.

Le ci volle una decina di giorni per sistemare tutto. A chi le chiedeva spiegazioni, dava risposte vaghe. Quando John Septimus Hill le disse di porgere a Jasper Gwyn i suoi più rispettosi saluti, lei chiarì che non avrebbe avuto modo di farlo.

– Ah no?

– No, mi spiace.

– Non prevede di incontrarlo entro un ragionevole lasso di tempo?

– Non prevedo di incontrarlo mai più, disse Rebecca. John Septimus Hill si permise un sorriso vagamente scettico che Rebecca giudicò fuori luogo.

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