Stava nuda come se fosse una sfida – il suo corpo così giovane, un’arma. Parlava spesso, e benché Jasper Gwyn non accennasse a risponderle e a più riprese si fosse spinto a spiegarle come un certo silenzio fosse indispensabile alla riuscita del ritratto, lei ogni giorno riprendeva a parlare. Non raccontava niente, non stava cercando di spiegare qualcosa: salmodiava un odio perenne, e una cattiveria indiscriminata. Era splendida, nel farlo, per nulla bambina, e tremendamente animale. Insultò per giorni, e in modo ferocemente elegante, i suoi genitori. Poi divagò brevemente sulla scuola e gli amici, ma era chiaro che lo faceva in modo frettoloso, impreciso, perché un altro era il punto a cui voleva arrivare. Jasper Gwyn aveva rinunciato a zittirla, e si era abituato a considerare la sua voce un particolare del suo corpo, solo più intimo di altri e in qualche modo più pericoloso – un artiglio. Non stava attento a ciò che diceva, ma quella cantilena tagliente finì per risultargli così vivida e seducente da fargli sembrare la nube sonora di David Barber vagamente inutile, se non addirittura fastidiosa. Il dodicesimo giorno la ragazzina arrivò dove voleva arrivare, cioè a lui. Prese ad aggredirlo, verbalmente, con delle fiammate che alternava a silenzi in cui si limitava a fissarlo, con un’intensità insopportabile. Jasper Gwyn divenne incapace di lavorare, e nei passaggi a vuoto della mente arrivò a capire che c’era qualcosa, in quella aggressione, di tremendamente perverso e seduttivo. Non era sicuro di essere in grado di difendersene. Resistette due giorni, poi il terzo non si presentò allo studio. Lo stesso fece per i quattro giorni che seguirono. Tornò il quinto giorno, quasi sicuro di non trovarla, e stranamente turbato all’idea di non sbagliarsi. Ma lei era lì. Stette in silenzio tutto il tempo. Jasper Gwyn la trovò, per la prima volta, di una bellezza pericolosa. Riprese a lavorare, ma con una fastidiosa confusione in testa.
La sera, tornato a casa, ricevette una telefonata di Rebecca. Era successa una cosa spiacevole. Su un tabloid del pomeriggio, senza particolare evidenza ma con i consueti toni ineleganti, si raccontava la curiosa storia di uno scrittore che eseguiva ritratti, in uno studio dietro a Marylebone High Street. Se ne taceva il nome, ma si menzionava il costo dei ritratti (leggermente gonfiato) e si davano molti particolari sullo studio. C’era un paragrafo, malizioso, sulla nudità dei modelli e un altro in cui si citavano incensi, luci soffuse e musiche new age. Secondo il tabloid farsi fare un ritratto in quel modo era già diventata, presso una certa buona società londinese, la moda del momento.
Da sempre Jasper Gwyn aveva temuto qualcosa del genere. Ma col tempo lui e Rebecca avevano capito che il modo di lavorare in quello studio portava la gente a diventare estremamente gelosa del proprio ritratto e istintivamente incline a non intaccare la bellezza di quell’esperienza con qualcosa che non fosse il conservarne una memoria privata. Ne parlarono un po’, ma ripassando tutti coloro che erano stati nello studio non riuscirono a trovarne uno che avrebbe potuto, realmente, prendersi la briga di contattare un tabloid e mettere su tutto quel casino. Fu inevitabile, alla fine, pensare alla ragazzina. Jasper Gwyn non aveva raccontato nulla di cosa stava accadendo con lei, nello studio, ma Rebecca sapeva leggere ormai ogni piccolo particolare e non le era sfuggito che là dentro qualcosa non stava funzionando come al solito. Provò a fare delle domande e Jasper Gwyn si limitò ad annotare che quella ragazzina aveva un talento tutto speciale per la cattiveria. Non volle aggiungere altro. Decisero che Rebecca sarebbe stata attenta a come la voce sarebbe rimbalzata sui media, e che per il momento Tunica cosa da fare era tornare a lavorare.
Jasper Gwyn rientrò nello studio, il giorno seguente, con la vaga impressione di essere un domatore che entrava nella gabbia. Trovò la ragazzina seduta per terra, nell’angolo in cui di solito si acquattava lui. Stava scrivendo qualcosa sui fogli color crema del suo taccuino.