27.

Ma il giorno dopo era già lì quando Rebecca arrivò.

Si era seduto per terra, appoggiato alla parete. Nello studio scorreva il loop di David Barber. Un fiume lento.

Rebecca salutò con un sorriso prudente. Jasper Gwyn fece un cenno col capo. Si era messo una giacca leggera e aveva scelto per l’occasione delle scarpe in cuoio, allacciate, marrone chiaro. Davano un’impressione di serietà. Di lavoro.

Quando Rebecca iniziò a svestirsi lui si alzò a sistemare meglio gli scuri, a una finestra, più che altro perché gli pareva inelegante starsene lì a guardare. Lei lasciò i vestiti su una delle poltrone. L’ultima cosa che si tolse fu una t-shirt nera. Sotto non portava niente. Si andò a sedere sul letto. Molto bianca la pelle, un tatuaggio alla base della schiena.

Jasper Gwyn tornò a sedersi per terra, dov’era prima, e iniziò a guardare. Lo sorpresero i seni piccoli, e i nei segreti, ma non era sui dettagli che gli venne da fermarsi – era più urgente capire l’insieme, ricondurre a una qualche unità quella figura che sembrava, per ragioni da chiarire, non avere alcuna coerenza. Pensò che senza vestiti dava l’impressione di una figura casuale. Perse quasi subito la nozione del tempo, e gli fu naturale il gesto semplice dell’osservare. Ogni tanto abbassava lo sguardo, come un altro sarebbe riemerso in superficie, a respirare.

Per molto tempo Rebecca rimase seduta sul letto. Poi Jasper Gwyn la vide alzarsi e misurare lenta la stanza, a piccoli passi. Teneva gli occhi sul pavimento, e cercava punti immaginari dove appoggiare i piedi, che aveva da bambina. Si muoveva come raccogliendo ogni volta pezzi di se stessa che non erano destinati a rimanere insieme. Il suo corpo sembrava il risultato di uno sforzo di volontà.

Tornò verso il letto. Si sdraiò sulla schiena, la nuca appoggiata sul cuscino. Teneva gli occhi aperti.

Alle otto si rivestì, e per qualche minuto rimase seduta, con l’impermeabile addosso, su una sedia, a respirare. Poi si alzò e se ne andò – giusto un piccolo cenno di saluto.

Jasper Gwyn per un po’ non si mosse. Quando si alzò, lo fece per andare a sdraiarsi sul letto. Prese a fissare il soffitto. Aveva appoggiato il capo nell’incavo del cuscino lasciato da Rebecca.

– Com’è andata?, chiese la signora con il foulard impermeabile.

– Non so.

– È brava, la ragazza.

– Non sono sicuro che tornerà.

– Perché mai?

– E tutto così assurdo.

– E allora?

– Non sono sicuro neanch’io, di tornare. Ma il giorno dopo tornò.

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