39.

L’ultima la aspettarono nel silenzio, il trentaseiesimo giorno di quello strano esperimento. Quando furono le otto, sembrò loro scontato che l’avrebbero aspettata insieme, perché non contava più nessun tempo che non fosse quello scritto nei filamenti di rame generati dal talento folle del vecchietto di Camden Town.

Nella luce delle due ultime lampadine, lo studio era già una sacca nera, mantenuta in vita da due pupille di luce. Quando rimase l’ultima, era un sussurro.

La guardavano da lontano, senza avvicinarsi, come per non sporcarla.

Era notte, e si spense.

Dalle finestre oscurate, passava giusto la luce utile a segnare l’orlo delle cose, e non subito, ma solo all’occhio assuefatto all’oscurità.

Parve ogni oggetto concluso, e solo loro due, ancora, viventi.

Una simile intensità Rebecca non l’aveva mai conosciuta. Pensò che in quel momento qualsiasi gesto sarebbe stato inadatto, ma capì che era vero anche il contrario, e che era impossibile, in quel momento, fare un gesto che fosse sbagliato. Così si immaginò molte cose, e alcune aveva iniziato a immaginarle molto tempo prima. Finché sentì la voce di Jasper Gwyn.

– Credo che aspetterò la luce del mattino qui dentro. Ma lei naturalmente può andare, adesso, Rebecca.

Lo disse con una specie di dolcezza che poteva anche sembrare rimpianto, così Rebecca gli si avvicinò e quando trovò le parole giuste disse che le sarebbe piaciuto restare ad aspettare lì con lui – solo quello.

Ma Jasper Gwyn non disse nulla, e lei capì.

Si rivestì lentamente, per l’ultima volta, e quando fu davanti alla porta si fermò.

– Sono sicura che dovrei dire qualcosa di speciale, ma a essere sincera non mi viene proprio in mente niente.

Jasper Gwyn sorrise nel buio.

– Non si preoccupi, è un fenomeno che conosco molto bene.

Si salutarono stringendosi la mano, e la cosa sembrò ad entrambi di un’esattezza e di un’idiozia memorabili.

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