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Quel che gli accadde, tuttavia, fu di ritrovarsi addosso, col passare dei giorni, una singolare forma di disagio che all’inizio fece fatica a comprendere e che solo dopo un po’ imparò a riconoscere: per quanto fosse seccante ammetterlo, gli mancava il gesto dello scrivere, e la quotidiana cura con cui mettere in ordine pensieri nella forma rettilinea di una frase. Non se l’aspettava, e questo lo fece riflettere. Era una sorta di piccolo fastidio che si ripresentava ogni giorno e prometteva di peggiorare. Così, a poco a poco, Jasper Gwyn iniziò a chiedersi se non era il caso di prendere in esame mestieri marginali in cui gli fosse possibile coltivare l’esercizio della scrittura senza che ciò implicasse, necessariamente, il ritorno immediato alle cinquantadue cose che si era ripromesso di non fare mai più.

Guide di viaggio, si disse. Ma si sarebbe dovuto viaggiare.

Pensò a quelli che scrivevano i manuali di istruzioni per gli elettrodomestici, e si chiese se esistesse ancora, da qualche parte del mondo, il mestiere di scrivere lettere per coloro che non erano in grado di farlo.

Traduttore, pensò. Ma da che lingua?

Alla fine, l’unica cosa chiara che gli venne in mente fu una parola: copista. Gli sarebbe piaciuto fare il copista. Non era un mestiere vero, se ne rendeva conto, ma c’era un riverbero in quella parola che lo convinceva, e gli faceva credere di cercare qualcosa di preciso. C’era una segretezza, nel gesto, e una pazienza di modi – un impasto di modestia e solennità. Non avrebbe voluto fare altro che quello: il copista. Era sicuro di poterlo fare benissimo.

Cercando di immaginare cosa mai, nel mondo reale, potesse corrispondere alla parola copista, Jasper Gwyn si fece scivolare addosso un sacco di giorni, uno dopo l’altro, in modo apparentemente indolore. Quasi non se ne accorse.

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