23.

– Cazzo, Jasper, sono le due! Sono a letto!

– Dormivi?

– Dormire non è Tunica cosa che si può fare in un letto.

– Ah.

– Lottie ti saluta.

In sottofondo si udì la voce di Lottie che senza rancore diceva Ciao Jasper. Era di buon carattere.

– Mi spiace, Tom.

– Lascia perdere. Cos’è, ti sei di nuovo perso? Devo mandare Rebecca a cercarti?

– No, no, non mi perdo più. Però, in effetti… a dire il vero era proprio di lei che ti volevo parlare.

– Di Rebecca?

Quel che aveva pensato Jasper Gwyn era che quella radazza era perfetta. Aveva in mente come la bellezza irrimediabile del suo viso suggerisse un desiderio che poi il suo corpo smentiva, con fare placido e lento, perfetto. Era veleno e antidoto – lo era in modo dolce ed enigmatico. Jasper Gwyn non l’aveva incontrata una sola volta senza sentire l’infantile desiderio di toccarla, appena: ma come avrebbe potuto desiderare di posare le dita su un insetto lucente, o su un vetro coperto di vapore. Inoltre la conosceva, ma non la conosceva, sembrava essere alla giusta distanza, in quella zona intermedia dove qualsiasi intimità ulteriore sarebbe stata una conquista lenta ma non impossibile. Sapeva che avrebbe potuto guardarla a lungo, senza soggezione, senza desiderio, e senza annoiarsi mai.

– Rebecca, sì, la stagista. Tom scoppiò in una risata.

– Ehi, Jasper, abbiamo un debole per le grassottelle?

Poi si girò verso Lottie.

– Senti questa, a Jasper piace Rebecca.

In sottofondo si sentì la voce assonnata di Lottie che diceva Rebecca chi?

– Jasper, fratellone, tu non la finisci mai di sorprendermi.

– Potresti smetterla un attimo con queste battute da caserma e starmi ad ascoltare?

– D’accordo.

– E una cosa seria.

– Ti sei innamorato?

– E una cosa seria nel senso che è una cosa di lavoro. Tom si infilò gli occhiali. Nella circostanza era il suo modo di aprire l’ufficio.

– Ti ha convinto a fare le scene dei libri che non scriverai mai? L’ho detto che era in gamba, quella.

– No, Tom, non è per quella storia. Avrei bisogno di lei per un mio lavoro. Ma non quello.

– Prenditela pure. Purché tu torni a scrivere, a me va bene.

– Non è così semplice.

– Perché?

– Voglio fare a lei il mio primo ritratto. Sai quella faccenda dei ritratti?

Tom se la ricordava bene.

– Non vado matto per quell’idea, lo sai Jasper.

– Lo so, ma adesso il problema è un altro. Avrei bisogno che Rebecca venisse nel mio studio a posare per una trentina di giorni. La pagherò. Ma mi dirà che non vuole perdere il lavoro con te.

– A posare?

– Voglio provarci.

– Tu sei matto.

– Può darsi. Ma adesso avrei bisogno di quel favore. Lasciala lavorare per me un mesetto, e poi te la riprendi.

Andarono un po’ avanti a parlarne e fu una bella telefonata, perché finirono per discutere del mestiere dello scrivere, e delle cose che entrambi amavano. Jasper Gwyn spiegò che quella situazione del ritratto lo attirava perché forzava a piegare il talento a una posizione scomoda. Si rendeva conto che le premesse erano assurde, ma proprio questo lo attirava, nel sospetto che se alla scrittura sottraevi la naturale possibilità del romanzo, qualcosa essa avrebbe fatto, per sopravvivere, una mossa, qualcosa. Disse anche che quel qualcosa sarebbe stato ciò che la gente avrebbe poi comprato e si sarebbe portata a casa. Aggiunse che sarebbe stato il frutto imprevedibile di un rito domestico e privato, non destinato a risalire alla superficie del mondo, e quindi sottratto alle miserie da cui si era afflitti nel mestiere di scrittore. Infatti, concluse, stiamo parlando di un mestiere diverso. Un nome possibile era: fare il copista.

Tom stette ad ascoltare. Cercava di capire.

– Non vedo come potrai aggirare il candido braccio mollemente appoggiato sul fianco o lo sguardo luminoso come un’alba orientale, disse a un certo punto. E per quel genere di cose, difficile immaginare di fare meglio di un Dickens o di un Hardy.

– Be’, certo, se mi fermo lì, la disfatta è assicurata.

– Sei sicuro che ci sia qualcosa oltre?

– Sicuro, no. Devo provare, te l’ho detto.

– Allora mettiamola così: io ti passo la mia stagista e non ti rompo i coglioni, ma tu mi prometti che se alla fine dell’e-sperimento non hai trovato davvero qualcosa torni a scrivere. Libri, dico.

– Cos’è, un ricatto?

– Un patto. Se non ce la fai, si fa come dico io. Si riparte con le scene dei libri che non scriverai mai, o con quel che vuoi tu. Ma si restituisce lo studio a John Septimus Hill e si firma un bel contratto nuovo.

– Potrei trovarmi qualcun altro che venga a posare.

– Ma vuoi Rebecca.

– Sì.

– Allora?

Jasper Gwyn pensò che tutto sommato il giochetto non gli dispiaceva. L’idea che fallire lo avrebbe riportato indietro all’orrore delle cinquantadue cose che non voleva mai più fare, gli sembrò tutt’a un tratto elettrizzante. Finì per accettare. Erano quasi le tre di notte, e lui accettò. Tom pensò che stava per recuperare uno dei pochi scrittori da lui rappresentati che potesse considerare veramente un amico.

– Domani ti mando Rebecca. In lavanderia, come al solito?

– Magari sarebbe meglio un posto un po’ più appartato.

– Al bar dello Stafford Hotel, allora. Alle cinque?

– Va bene.

– Non farle il bidone.

– No.

– Te l’ho già detto che ti voglio bene?

– Non stanotte.

– Strano.

Passarono ancora una decina di minuti a sparare boiate. Due sedicenni.

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