Dieci giorni dopo John Septimus Hill portò Jasper Gwyn in un fabbricato basso, al fondo di un giardino, dietro a Marylebone High Street. Per anni era stato il magazzino di un falegname. Poi, in rapida successione, ne avevano fatto il deposito di una galleria d’arte, la sede di una rivista di viaggi e il garage di un collezionista di moto d’epoca. Jasper Gwyn lo trovò perfetto. Apprezzò molto le indelebili macchie di olio lasciate dalle moto sul pavimento di legno e i lembi dei manifesti di mari caraibici che nessuno si era preso la briga di staccare dai muri. C’era un piccolo bagno sul tetto, ci si arrivava con una scala di ferro. Non c’era traccia di cucina. Le grandi finestre potevano essere oscurate da massicci scuri in legno, appena rifatti e non ancora laccati. Alla grande stanza si accedeva da una porta a due battenti che dava sul giardino. C’erano anche le tubature a vista, e non erano messe niente bene. John Septimus Hill annotò, con tono professionale, che per le macchie di umidità non sarebbe stato difficile trovare una soluzione.
– Benché sia la prima volta, annotò senza ironia, che l’umidità mi viene presentata come un’auspicabile decorazione, invece che una iattura.
Fissarono il prezzo di affitto, e Jasper Gwyn si impegnò per sei mesi, riservandosi di rinnovare il contratto per altri sei. La cifra era considerevole, e questo lo aiutò a capire che se mai era stata un gioco, quella storia del ritratto, adesso non lo era più.
– Bene, le pratiche burocratiche le metterà a punto con mio figlio, disse John Septimus Hill al momento del commiato. Erano per strada, davanti a una stazione della metropolitana. Non la prenda come una osservazione dovuta, aggiunse, ma è stato un vero piacere avere a che fare con lei.
Jasper Gwyn era negato per gli addii, anche nelle loro forme più leggere, tipo il commiato da un broker immobiliare che gli aveva appena trovato un ex garage dove tentare di scrivere ritratti. Ma anche provava una certa simpatia per quell’uomo, sincera, e gli sarebbe piaciuto saperla esprimere. Così, invece di dire qualcosa di genericamente gentile, mormorò una frase che stupì anche lui.
– Ma non ho sempre scritto libri, disse, prima facevo un nitro mestiere. L’ho fatto per nove anni.
– Davvero?
– Facevo l’accordatore. Accordavo pianoforti. Lo stesso mestiere di mio padre.
John Septimus Hill accolse la notizia con evidente soddisfazione.
– Ecco, adesso credo di capire meglio. La ringrazio.
Poi disse che c’era una cosa che si era sempre chiesto, a proposito degli accordatori.
– Mi son sempre domandato se sanno suonare il pianoforte. In modo professionale, intendo dire.
– Di rado, rispose Jasper Gwyn. E comunque, proseguì, se la domanda che ha in testa è come mai, dopo aver lavoralo per ore, alla fine non si seggono lì a suonare una Polacca di Chopin per gustarsi il risultato della loro dedizione e del loro sapere, la risposta è che, anche se fossero in grado di farlo, non lo farebbero mai.
– No?
– Chi accorda pianoforti, non ama scordarli, spiegò Jasper Gwyn.
Si lasciarono promettendosi di rivedersi.
Giorni dopo Jasper Gwyn si ritrovò seduto per terra in un angolo di un ex garage che adesso era il suo studio di ritrattista. Si rigirava in mano le chiavi, e si studiava le distanze, la luce, i dettagli. C’era un gran silenzio, rotto solo dal gorgoglio episodico delle tubature dell’acqua. Rimase lì per un sacco di tempo, analizzando le prossime mosse da fare. Qualcosa si sarebbe pur dovuto mettere – un letto, forse, delle poltrone. Pensò a come illuminare, e a dove sarebbe stato lui. Cercò di immaginarsi lì, in silenziosa compagnia di uno sconosciuto, abbandonati entrambi in un tempo di cui dovevano imparare tutto. Sentiva già la morsa di un imbarazzo ingovernabile.
– Non ce la farò mai, disse a un certo punto.
– Ma si figuri un po’, disse la signora con il foulard impermeabile. Si beva prima un whisky, se proprio non se la sente.
– Potrebbe non bastare.
– Doppio whisky, allora.
– Lei la fa facile.
– Cos’è, ha paura?
– Sì.
– Bene. Se non c’è paura non si combina niente di buono. E per le macchie di umidità?
– Pare che ci sia solo da aspettare. I tubi del riscaldamento fanno schifo.
– Lei mi tranquillizza.
Il giorno dopo Jasper Gwyn decise di occuparsi della musica. Tutto quel silenzio lo aveva impressionato, ed era giunto alla conclusione che si dovesse foderare quella stanza con una qualche forma di suono. I gorgoglìi dei tubi andavano anche bene, ma era indubbio che si potesse fare di meglio.