Il parco mi ha accolto come un amico. Io ho imparato.
Cose come gli orari dei ranger e come evitarli. Quali ristoranti buttano via il cibo più fresco e in quali momenti della notte si può andare a pescare nei cassonetti senza il rischio di essere disturbato.
Chi era chi.
Quelli della Western erano spacciatori e volevano solo farsi gli affari loro senza essere scocciati, così io stavo sull’altro lato della strada e dopo un mese circa, uno di loro ha attraversato ed è venuto da me. «Bravo ragazzo», mi ha detto e mi ha allungato cinque dollari.
Ho imparato come procurarmi la roba che mi serve.
Se ti spingi abbastanza a est su Los Feliz, finiscono le case eleganti e cominciano quelle con tanti appartamenti. La domenica la gente che vive lì vende la sua roba sul prato davanti a casa e se tieni duro fino alla fine della giornata puoi tirar su pezzi per un niente, perché loro non hanno voglia di riportarseli via.
Ho comperato per un dollaro una coperta verde che puzzava di cane bagnato e per tre dollari un sacco a pelo e mi sono fatto sganciare gratis anche un temperino a tre lame, una a forma di cacciavite, dallo stesso che mi ha venduto il sacco a pelo.
Certe volte quelli che vendevano mi guardavano in modo strano, perché certo si chiedevano come mai un ragazzino era lì a comperare biancheria intima, ma non hanno mai rifiutato i miei soldi.
Ho comperato una torcia, due confezioni di batterie, delle vecchie T-shirt e un golf e anche un cuscino rotondo da divano duro come un sasso e mezzo marcio, una fregatura totale.
Il primo mese ho speso altri trentaquattro Tampax-dollari. Aggiungendo i cinque ricevuti dallo spacciatore, me ne restavano cinquantasette. Ho trovato i Cinque Posti e ho distribuito la mia roba.
Ho imparato quando sorridere, quando non farlo, quando guardare, quando far finta di non vedere. Ho scoperto che il denaro sa parlare.
Ho fatto errori. Ho mangiato cibo vecchio e sono stato male, una volta malissimo, ho vomitato per tre giorni di fila con la febbre e i brividi ed ero sicuro di morire. Quella volta ero in una grotta al Tre, in mezzo agli insetti e ai ragni e non me ne importava niente. Il terzo giorno sono strisciato fuori prima del sorgere del sole e ho lavato i miei vestiti in un ruscello. Avevo le gambe così deboli che mi sembrava di aver preso tanti calci dietro le ginocchia. Sono guarito, ma da quella volta mi capita spesso di avere mal di pancia.
Ho imparato il giro delle puttane e dei magnaccia e ho visto gente fare sesso nei vicoli, soprattutto donne in ginocchio a ciucciare tizi che non si muovevano, gemevano e basta.
Ho capito che per procurarmi abbastanza soldi da non dovermi fare usare da nessuno, avevo bisogno di cultura, ma come si fa a studiare vivendo in un parco?
La risposta che ho trovato è: impara da solo. Ci vogliono dei libri di testo, quindi una scuola. Una scuola media perché a Watson ero in prima, anche se una volta era venuto un esperto da Bakersfield che mi aveva fatto dei test e mi aveva detto che avrei potuto saltare subito in seconda se mamma firmava certi moduli. Lei aveva risposto di sì, ma poi non l’ha mai fatto e poi ha perso i moduli e l’esperto non si è fatto vivo, così sono rimasto in prima e se non lasciavo correre la fantasia mi prendeva una noia così mortale che mi sembrava di avere un pezzo di legno al posto del cervello.
In una cabina telefonica ho trovato delle Pagine Gialle, me le sono portate al parco e ho cercato sotto Scuole. Non ho trovato scuole medie e mi è sembrato molto strano, così il giorno dopo ho chiamato il provveditorato facendo la voce più bassa che potevo e ho detto che mi ero appena trasferito a Hollywood con mio figlio di dodici anni e che avevo bisogno di una scuola media.
«Un momento, signora», mi ha risposto una donna e mi ha messo in attesa per un sacco di tempo. Quando è tornata mi ha detto: «Thomas Starr King in Fountain Avenue», e mi ha dato l’indirizzo.
Ci sono andato a mezzogiorno. Era a due miglia circa dal Posto Tre in una zona tutta malconcia, ed era gigantesca, con tante palazzine rosa con le porte blu, un cortile gigadontico con un recinto altissimo. Ho aspettato dall’altra parte della strada e ho scoperto che la scuola finiva all’una, con tonnellate di bambini scaricati nel cortile a ridere e a prendersi a cazzotti. Mi ha fatto sentire un dolore in gola.
Se si usciva all’una, allora potevo andarmene in giro per tutto il pomeriggio senza guai.
Mi sono organizzato in questo modo: la mattina la passavo a lavarmi, mangiare quello che avevo messo via la sera per la colazione, leggere e studiare, visitare i Posti per vedere se c’era ancora tutta la mia roba. Il pomeriggio serviva a procurarmi altro cibo e tutto quello che mi serviva.
Sono tornato alla King all’intervallo delle dieci. I bambini erano fuori in cortile e gli insegnanti che ho visto chiacchieravano fra loro. Sono entrato da uno dei cancelli e ho girato un po’ come uno scolaro qualunque. C’erano due diversi magazzini dove tenevano i libri.
Mi ci sono volute otto visite per trovare tutto quello di cui avevo bisogno.
È stato facile. Chi avrebbe sospettato che un bambino rubava libri?
Ho preso libri di testo di prima, seconda e terza, penne e matite, quaderni a righe. Inglese, storia, scienze, matematica, algebra compresa.
Lontano dai compagni rompiscatole e senza Moron a distrarmi, mi potevo concentrare e mi ci sono voluti solo due mesi per finire tutti i libri. Persino quello di algebra, che non avevo mai studiato prima e mi sembrava molto difficile, con tutte quelle lettere-simbolo che all’inizio non riuscivo a capire, ma grazie ai capitoli introduttivi piano piano sono arrivato fino in fondo.
Mi piaceva l’idea delle variabili, cioè una cosa che in sé non significa niente, ma prende il valore che le dai tu.
Quell’onnipotente X. Mi vedevo come una X vivente, un niente, che può essere tutto.
Una notte sono tornato alla King con tutti i libri e li ho lasciati davanti al recinto.
Ho tenuto solo il testo di algebra, perché volevo esercitarmi nelle equazioni. Sapevo di dover tenere la mente occupata, sennò si indeboliva, ma ero stanco di libri di testo, avevo voglia di vacanze. Volevo leggere cose più varie, enciclopedie, biografie di personaggi importanti. Mi mancava il mio libro sui presidenti.
Niente romanzi, niente fantascienza, non mi interessano le cose che non sono vere.
Vicino a Los Feliz ho trovato una biblioteca, a pochi isolati sulla Hillhurst, un posto strano, senza finestre, nel bel mezzo di un centro commerciale. Dentro c’era uno stanzone con manifesti colorati di città straniere al posto delle finestre e poca gente, anziani che leggevano il giornale.
Io ero vestito bene e avevo il mio libro di algebra, carta, matita e uno zaino. Seduto a un tavolo in fondo ho finto di fare equazioni mentre mi guardavo intorno.
La tipa che doveva essere il capo era vecchia e dall’aria cattiva come la bibliotecaria di Watson, ma se ne stava al posto suo a parlare al telefono. La giovane messicana con i capelli lunghissimi era quella che si occupava dei libri. Si è accorta di me ed è venuta tutta sorridente a chiedermi se avevo bisogno di aiuto.
Io ho scosso la testa e ho continuato con le mie equazioni.
«Ah», ha fatto lei, piano piano, «compiti di matematica, eh?»
Io ho alzato le spalle, senza rispondere, allora lei ha smesso di sorridere e se n’è andata.
La volta dopo ha cercato di incrociare il mio sguardo, ma io ho continuato a fare finta di niente e dopo un po’ mi ha lasciato perdere anche lei.
Ho cominciato ad andare in biblioteca regolarmente, una o due volte la settimana, sempre dopo l’una, cominciando con i compiti finti e poi cercando negli scaffali. Quando trovavo qualcosa di interessante, leggevo per due ore.
Mi capitava anche di finire un libro intero in due ore. La terza settimana ho trovato lo stesso identico libro di Jacques Cousteau che avevo a Watson e ho pensato: sono senz’altro nel posto giusto.
Poco dopo ho trovato l’altro libro sui presidenti. È stato il primo che ho portato via. È l’unico che ho conservato e ancora non so bene perché. Lo tratto con la massima cura, lo proteggo con una plastica di tintoria. Dunque non è un vero reato.
Però ci sto male lo stesso. Continuo a dirmi che un giorno o l’altro, quando sarò grande e avrò dei soldi, regalerò dei libri alla biblioteca. Qualche volta mi domando se durerò abbastanza a lungo da diventare grande.
Ora, dopo quello che ho visto, tutto mi sembra insicuro. Forse è ora di andare via dal parco. Ma dove?
Inciampo in un sasso, ma riesco a mantenermi in equilibrio. Finalmente, ecco il Cinque, con l’odore dello zoo che arriva dal groviglio di felci. Ora devo nascondermi, riposare un po’, pensare un po’.
Ho certe cose molto serie a cui pensare.