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Quando ho sentito il rumore della serratura della porta posteriore della chiesa ebrea, mi si è bloccato il cervello e non potevo più muovermi.

Che cosa mi avrebbero fatto gli ebrei? Ero fritto davvero.

Quando la porta si è aperta, mi sono tuffato sotto quella specie di grande tavolo, mi sono infilato nel vano e ho chiuso lo sportello senza fare rumore. Da dentro ho sentito dei passi.

Una persona sola… sì, una sola.

Il vano era vuoto e sapeva di legno e di vestiti vecchi. Io avevo la bocca che sapeva di cracker e paura. Mi sono spinto in un angolo e non mi sono mosso. Ho pregato che non gli venisse in mente di aprire il vano.

Il cartello diceva niente preghiere fino all’indomani; c’erano forse ebrei che pregavano in segreto?

Fuori qualcuno camminava, si fermava, camminava ancora.

Ora mi era vicino. Se avesse aperto il vano, sarei saltato fuori mettendomi a gridare come un pazzo, l’avrei colto di sorpresa e me la sarei data a gambe.

Già, ma dove? Attraverso la porta del retro impossibile, a meno che non l’avesse richiusa.

Quella principale? La si poteva aprire dall’interno? Per scappare dalla finestra del bagno mi ci voleva tempo. Mi è venuto un mal di pancia terribile. Ho cominciato a sentirmi soffocare.

Non avevo fatto niente di male, per la verità, avevo solo mangiato un po’ del cibo che avevo trovato in chiesa e non era buono. Cracker all’aroma di cipolle, certi biscotti a forma di farfalla che dovevano essere lì da un secolo.

Non ho nemmeno toccato la bottiglia d’argento con la stella degli ebrei, l’ho solo scossa per vedere se cadeva fuori qualcosa. Ho pensato di fare saltare quella ridicola serratura, ma la bottiglia mi sembrava carina e non volevo danneggiarla.

Quello era un posto di ebrei, ma era pur sempre una chiesa, dunque forse Dio era anche lì.

Gli avrei detto tutto se mi avesse preso.

No, mi sarei messo a gridare e sarei scappato in bagno, mi sarei chiuso dentro e poi sarei uscito dalla finestrella.

Ho ricordato che cosa diceva Moron degli ebrei che ammazzavano i cristiani… doveva essere una fandonia, ma se poi…

Adesso è più distante. Avanti e indietro, avanti e indietro… che cosa sta facendo?

Ehi, si avvicina di nuovo. Sento tintinnare… sta scuotendo quella specie di bottiglia d’argento. Adesso fa un fruscio sul tavolo… probabilmente spazza via le briciole di cracker… ora va via. Forse ha visto che nessuno ha rubato niente e torna a casa…

Eccolo che torna…

Lo sportello si apre.

Mi rannicchio ancora di più in fondo.

Una faccia mi osserva. Una faccia anziana, un po’ grassa. Occhiali con una montatura grossa, nera, un nasone rosso, orecchie che sporgono.

Un tipo buffo. Indietreggia. Indossa vestiti da vecchio, una camicia bianca e pantaloni larghi blu chiaro e una di quelle giacchette con la cerniera. Beige. Ha dita davvero grosse e le mani sembrano sproporzionate.

Non sembra arrabbiato. Sorpreso piuttosto. Io mi spingo sempre di più nell’angolo. Sento il legno duro contro la schiena e il sedere, ma non riesco a smettere di spingere.

Lui indietreggia ancora un po’, dice: «È tutto a posto», con una voce fonda e brontolosa.

Io resto dove sono.

«È tutto a posto. Vieni fuori, non mordo.»

Poi sbircia dentro, sorride, mi mostra i denti, come per cercare di dimostrarmi che non sono fatti per morsicare i bambini. Anche i nonni pervertiti sorridono in quel modo.

Mi lascia spazio per uscire, ma io non riesco a muovermi, non riesco a muovermi.

Lui mi dice che è tutto a posto, che se ho fame devo mangiare le cose giuste, non porcherie.

Penso che se diventa pericoloso posso sempre atterrarlo. Anche con quelle manone, è pur sempre un vecchio.

Finalmente mi rilasso e riesco a strisciare fuori. Lui mi afferra per il braccio ed è forte davvero e io cerco di tirargli un calcio e lui mi lascia andare e io corro alla porta della sinagoga, ma è chiusa con una di quelle serrature che hanno bisogno della chiave, perciò sono bloccato.

Torno indietro. Lui si è seduto su una panca. Ride, mi mostra una scatola di ciambelle al cioccolato, cerca di darmene una, ma io non mi avvicino di certo.

Non solo perché è ebreo, ma è una persona e non ci si può fidare di nessuno.

Lui si mette a parlare di nuovo, mi dice che mi apre la porta di dietro, non sono costretto a passare dalla finestra.

Poi tira fuori dei soldi! Due biglietti da venti. Quaranta dollari!

Che cosa sta cercando di comperare?

Io non li prendo e lui li posa per terra dove ha messo le ciambelle e si alza e va ad aprire la porta e poi va in bagno.

Io tiro su tutto e me la batto.


Fuori respiro di nuovo. I soldi che ho in tasca pesano una tonnellata e la prima ciambella che mangio, mentre percorro il vicolo, è solo fantastica. Ne mangio un’altra. Poi comincia a farmi male la pancia e decido di conservare le altre per dopo.

Stanno aprendo i negozi e c’è più gente che passeggia e schettina, e per prima cosa mi compero un cappello, un berretto dei Dodgers con la fettuccia regolabile dietro. Lo aggiusto sulla circonferenza della mia testa e tiro la visiera in giù per proteggermi dal sole e anche per nascondermi la faccia.

Perché comprarlo è un’esperienza strana. In un baracchino a pochi passi dalla sinagoga. Il tizio che me lo vende è brutto, con la pelle rovinata, occhiali a specchio e capelli lunghi e bisunti, biondi e grigi. Mi guarda strano. Come se mi conoscesse.

Immagino che potrebbe essere di Hollywood, ma io non l’ho mai visto prima. Ha un accento incredibile, come i cattivi nei film di spie. Russo, direi, parla come una spia russa.

Dunque perché mi guarda così? Cioè, non posso esserne sicuro per via degli occhiali a specchio. Ma me ne dà l’impressione… per il modo in cui gira la testa verso di me e la tiene lì. Per come impiega un sacco di tempo a darmi il resto.

Mentre mi giro, mi fa: «Ehi, tu, ragazzo», ma io me ne vado, calcandomi il cappello in testa. Quando mi volto poco dopo, lui è davanti al baracchino, guarda ancora nella mia direzione, così mi infilo dietro un angolo e mi faccio un altro vicolo, poi di nuovo sull’Ocean Front, quando sono troppo distante perché mi veda.

L’oceano è diventato tutto blu e finalmente non ho più freddo nelle ossa. Sento odore di corndog e popcorn, so di avere dei soldi per comperarle, ma sono ancora sazio dei cracker e delle ciambelle. Tutta questa gente e io che cammino con loro, come se fosse un marciapiede mobile e noi tutti insieme a ballare un ballo strano. Nessuno mi importuna.

Il profumo di corndog mi fa sembrare che sia una sagra. Una volta sono stato alla festa della scuola. Non avevo soldi per comprare corndog o altro. Questo mi sembra un sogno bellissimo.

Arrivo in fondo alla passeggiata e da lì in avanti c’è solo sabbia.

La spiaggia è come la fine del mondo.

Penso di provare dall’altra parte, mi giro, cammino un po’ finché vedo il brutto russo che viene verso di me. È nella folla, ma non ne fa parte. Tutti gli altri hanno l’aria di divertirsi. Lui sembra rabbioso. E i suoi occhi sono dappertutto. Sta cercando qualcosa… me?

Un altro pervertito?

Non voglio saperlo. Svicolo, torno nella direzione da cui sono arrivato, girando a guardarmi alle spalle di tanto in tanto. Vedo un paio di persone nel vicolo, ma non lui. Poi la stradina è di nuovo deserta ed ecco la sinagoga. L’enorme Lincoln Continental bianca con il tettuccio marrone dev’essere del vecchio.

Canoe giudee, le chiamava Moron. Le Cadillac e le Lincoln Continental.

Macchine smidollate, diceva sempre, per gente smidollata.

Però il vecchio ha le braccia forti.

Tutti quei soldi che mi ha dato, quaranta dollari, così, come se niente fosse. Allora è vero che gli ebrei sono ricchi. Ma non ha voluto niente in cambio.

Forse riesco a farmi dare degli altri soldi da lui.


Sono ancora nel vicolo a pensarci quando lui esce, mi vede e fa un sorriso sorpreso. È basso davvero. Questa volta mi accorgo che ha i denti troppo bianchi, devono essere falsi.

Mamma si era fatta fare dei denti falsi da mettere in fondo alla bocca, dove le erano cascati quelli morti, ma non se li è mai messi e le sue guance hanno cominciato a incavarsi.

Spalanca le braccia, come se fosse confuso.

«Che c’è?» domanda. «Li hai già spesi tutti?»

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