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In preda a una vaga sensazione di nausea, ancora mezza stordita, Sharia Straight sedeva sul divano del trailer. Buell «Motor» Moran mangiava spezzatino freddo direttamente da un barattolo e finiva l’ultima birra. Sharia era ancora indolenzita, Moran era stato brutale con lei, prendendola da dietro, affondandole le dita nelle natiche. Trovò un barlume di lucidità e ricordò Billy.

Il suo caro bambino… Motor grugnì e disperse i suoi pensieri.

Gli piaceva farlo in quel modo perché così poteva stare in piedi, non doveva reggere il peso del corpo sulle mani o sforzare la schiena. L’unico vantaggio per lei era di non doverlo vedere in faccia.

Anche da dietro, puzzava. Come indumenti sporchi.

Tutta la sua vita puzzava come indumenti sporchi.

Le doleva la testa; la tequila le faceva male, specialmente quella robaccia che Motor comperava allo Stop ’n Shop. Meglio la birra, birra ed erba insieme erano il massimo, perché la facevano sentire distante dalle cose, ma non avevano più erba e lui si scolava tutta la birra.

Una bestia, Moran, un grande e grosso porco, cattivo e peloso, più grosso persino di papà. Ricordando le sue unghie nei fianchi, sapendo quant’erano nere, pensava: sporco, è sporco, anch’io sono sporca.

Era inevitabile che finisse così o c’era qualche altro modo…

Non lo sapeva, non lo sapeva.

Quella cosa calda e fetida che passava per aria all’interno del trailer era soffocante. Il pezzo di stoffa che aveva inchiodato sulla finestrella sopra il letto si era parzialmente staccato, ma vedeva solo una fettina di nero, tutti dormivano al parcheggio, doveva essere molto tardi… Che ora?

E che ora era dove si trovava Billy? Se si trovava da qualche parte e non…

Quattro mesi da quel giorno terribile e, quando glielo concedeva, il ricordo la trafiggeva come un coltello.

Il terrore di pensarlo morto.

Affettato da qualche maniaco.

Travolto da un camion su qualche strada solitaria. Quel corpicino, magro e bianco, così piccolo, era sempre stato piccolo salvo quando era appena nato e aveva quel bel faccino grasso… perché lei lo nutriva, non voleva smettere di allattarlo, nemmeno quando non veniva più fuori niente e i capezzoli le sanguinavano, ma le suore l’avevano costretta a smettere, una di loro, quella alta di cui aveva dimenticato il nome, le aveva ordinato: «Basta, ragazza. Avrai mille occasioni per sacrificarti».

Billy non c’era più. Le ci erano voluti quasi due giorni per rendersi conto che era veramente andato via.

Non era lì quand’era rientrata con Motor quella sera, ma era già successo che andasse a spasso da solo, così si era addormentata senza preoccupazioni, si era svegliata solo alle dieci dell’indomani, pensando che fosse già uscito per andare a scuola. Quand’era venuto buio anche il giorno dopo senza che ancora lo avesse visto, aveva capito che doveva essere successo qualcosa, ma era già drogata e non poteva muoversi.

Il mattino seguente, quando nessuno le portò il suo caffè istantaneo, si era resa conto che era passato troppo, troppo tempo. Come un grande coltello, il panico l’aveva infilzata e aveva cominciato a gridare in silenzio dentro di sé: Oh no, non può essere… dove, perché, chi, perché?

A Motor non aveva mai detto niente, mai gli aveva lasciato intuire che cosa sentiva dentro. Né a lui né a nessun altro.

Quel giorno, quando Motor era uscito, aveva lasciato il trailer per la prima volta da un mese a quell’ora del mattino, con il sole che le faceva male agli occhi, consapevole, ora, di avere il vestito sporco e un buco in una scarpa.

Aveva girato per Watson, aveva camminato fino ad avere i piedi gonfi.

Una giornata molto calda, un sacco di uccelli in cielo, gente che non aveva mai guardato veramente in faccia, cani e gatti e altra gente. Aveva battuto tutti i campi e i frutteti, i negozi, lo Shop ’n Shop, il Sunnyside, era stata persino a scuola, perché poteva aver trascorso la notte altrove per andare a scuola da solo l’indomani, anche se non aveva senso, perché avrebbe dovuto farlo?

Ma quante volte succedono cose che non hanno senso, aveva imparato da tempo a non attendersi un senso sempre e comunque.

E aveva camminato, e aveva cercato, aveva frugato dappertutto. Allo Stop aveva comperato una pepsi e un Payday, giusto per rifocillarsi, le arachidi erano molto energetiche.

Senza mai chiedere a nessuno se lo avevano visto, cercando in silenzio, perché non voleva che qualcuno pensasse così male di lei come madre.

Senza parlarne allo sceriffo, a lui meno che mai, perché avrebbe potuto insospettirsi, andare a perquisire il trailer, trovare la scorta d’erba.

Quella sera lo aveva detto a Motor e lui aveva detto chi se ne frega, un ragazzino scappato di casa, balle quotidiane, che diamine, anche lui era scappato a quindici anni dopo aver pestato a sangue il suo vecchio. E non aveva fatto lo stesso anche lei? Tutti scappavano, ed era ben ora che quella caccola avesse sviluppato un minimo di palle.

Ma Billy aveva solo dodici anni e non li dimostrava, piccolo com’era, Billy non era così, non era la stessa cosa di lei o di quel grosso porco di Motor, Billy era diverso.

Quel giorno che aveva cercato dappertutto, nessuno le aveva chiesto che cosa stesse facendo, dov’era Billy. Non quel primo giorno, né il secondo, o il terzo. Mai. Non una volta.

Quattro mesi ora, ancora nessuna domanda. Né a scuola, né nel vicinato. Di sicuro nessun amico perché Billy non aveva mai avuto amici, probabilmente era colpa sua perché quando lui era piccolo lei viveva in quell’altro trailer, più brutto ancora di questo, con certa gente che ancora si sforzava di dimenticare. Dio com’era ridotta. No, non pensava che qualcuno avesse fatto del male a Billy.

Era sempre stato un bambino quieto, anche da piccolo, così tranquillo, da non accorgersi nemmeno che c’era.

Lacrime le scaturirono dal profondo della testa, le inondarono le palpebre chiuse, gliele gonfiarono, la costrinsero ad aprirle un po’ per lasciar defluire il pianto.

Quando lo fece si sorprese quasi di ritrovarsi nel trailer. Non era cambiato niente, vedeva un po’ offuscati i profili del cucinino, Motor seduto laggiù a rimpinzarsi, piatti sporchi, odore acido, acidi i piatti, acido il mondo.

Dov’era il suo ometto?

Il giorno dopo la sua scomparsa aveva avuto un incubo. Aveva visto un luogo scuro e umido, una stanza di torture, un pazzo che lo trovava in giro per gli aranceti, uno di quelli di cui si sente parlare, quelli che si aggirano nei pressi delle scuole e di altri posti a rapire bambini, a farci le loro cose da pazzi, affettarli. Si era svegliata tutta tremante e sudata, con il ventre che le ardeva come se avesse ingoiato fuoco.

Motor russava mentre lei guardava il sole schiarire la stoffa inchiodata sulla finestra del trailer. Troppo spaventata per muoversi. O pensare. Poi le era tornata alla mente la camera di tortura e le era venuto il voltastomaco. Era corsa in bagno a vomitare, cercando di farlo senza rumore, per non svegliare Motor.

Tutte le notti per una settimana si era svegliata da brutti sogni in un bagno di sudore.

Devastata da rimorso e paura, quell’orribile persona che era, la peggior madre del mondo, mai avrebbe dovuto diventare madre, mai avrebbe dovuto venire al mondo lei stessa per tutte le disgrazie e le brutture che aveva provocato nel mondo, meritava di essere sbattuta da dietro da un porco…

Gli incubi erano finiti quando aveva trovato che i soldi Tampax erano scomparsi e aveva capito che cos’era successo.

Una fuga. Un piano.

Aveva risparmiato per molto tempo, nascondendo il denaro a Motor e a tutti quelli prima di lui.

Per che cosa?

Giusto in caso.

In caso di che cosa?

Niente.

Meglio che i soldi li avesse presi Billy. Diciamocelo, lei non li avrebbe mai usati, non meritava di usarli, la peggior madre del mondo intero.

Forse non la peggiore, c’era sempre quella ragazza che aveva annegato i suoi due bambini nel lago, quella era peggiore di lei. E in TV ne aveva vista un’altra che si era buttata dalla cima di un palazzo tenendo il suo neonato tra le braccia. Eccone un’altra peggiore.

C’erano quelli che bruciavano i propri figli o li picchiavano, oh lo sapeva bene, lei, ma aveva poco da rallegrarsi se per trovare termini di confronto peggiori di sé doveva ricorrere a personaggi come quelli, giusto?

La verità era che le mancavano le attenuanti.

Per forza Billy aveva dovuto scappare.

Nessuna via di fuga per lei, lei non era abbastanza intelligente, non era abbastanza brava, come diceva sempre papà: qualcosa che manca, battendosi la testa con la mano.

Per dire che era stupida o mezzo matta.

Non era vero, però…

Pensava giusto quando non era fatta.

D’accordo, leggere le era difficile, non era certo forte con i numeri, ma sapeva pensare, questo sì. Lei stessa talvolta non capiva le cose che faceva, ma non era matta. Tutt’altro.

Meglio non pensare… ma dove poteva essere scappato Billy?

Così piccolo e magro.

C’era poco da meravigliarsi, da quel punto di vista, guarda da chi era venuto fuori!

Era ben strano com’era andata. Perché di solito a lei piacevano quelli grossi. Grossi come papà. Bisonti, come Motor e altri. Nomi e volti, quelli finivano dimenticati… tutti quei giocatori di football e quei lottatori, tutti grandi e grossi, tutti a farle quello che papà sospettava che facessero, papà che la picchiava sul sedere anche se non aveva nessuna prova.

Avrebbe voluto spiegarlo a papà: Non è fregola, è la sola occasione di avvicinarmi a gente con uno scopo.

Non si davano spiegazioni a papà.

Uno scopo… era passato molto tempo dall’ultima volta che aveva pensato al futuro.

Troppi anni di cose andate storte.

Con una solitaria notte di dolcezza, il più bel bimbo del mondo, e quelle suore erano burbere ma erano state buone con lei, aveva sentito il loro affetto anche se sapeva che avrebbero voluto che rinunciasse a Billy.

Nemmeno a parlarne, Billy era suo e suo restava.

Mandò giù come una caramellina il ricordo del faccino tondo di Billy appena nato. Aveva diritto a uno zuccherino anche lei, no?

Quella notte, quella notte di…

Quanto più giovane, quanto più bella, più snella, sdraiata nel frutteto dopo mezzanotte. Scelta sua di stare soia… forse è da lì che aveva preso Billy!

Forse erano uguali almeno in una cosa!

Si ritrovò a sorridere ricordando quella notte, quella volta in cui aveva veramente sentito qualcosa. Il calore tra le gambe, un calore che le si era diffuso in tutto il corpo, la durezza del terreno che non le faceva alcun male alla schiena.

Gli aranci verdi come vetro di bottiglia, nella luce della luna, innevati di fiori perché era stagione, tutto il frutteto fragrante di quel profumo cremoso e dolce, un cielo splendido, scuro con un alone di bella luce sopra di lei perché la luna era grande e gonfia e dorata e gocciolava luce, come una frittella grondante di burro.

Lei sdraiata là sotto, dopo che lui l’aveva baciata e le aveva detto scusami, devo andare, e lei aveva ancora la gonna sollevata, un’onda di gonna.

Poi una vibrazione, forte, vicina, mentre un inseguirsi veloce di nuvole nascondeva la luna.

Cicale, a milioni, dappertutto nell’aranceto.

Aveva sentito storie sulle cicale ma non le aveva mai viste.

Nemmeno dopo.

Quella volta sì, quell’unica volta.

Forse era stato un sogno, forse tutta quella notte era un sogno…

Insetti enormi come quelli avrebbero dovuto spaventarla.

Due volte più grossi delle luccicanti, nere api selvatiche che la terrorizzavano quando schizzavano fuori dal nulla.

Le cicale erano ancora più rumorose, una miriade, avrebbe dovuto sentirsi paralizzare dalla paura.

Invece no, distesa sulla schiena, sentendosi dolce e femmina, sentendosi come un secchio di polline e miele, aveva guardato le cicale posarsi sui filari di aranci, uno dopo l’altro, riempiendo tutto il frutteto, come pieghe di una coperta grigio marrone.

Che cosa stavano facendo? Mangiavano i fiori? Rosicchiavano le minuscole arance verdi, che erano aspre e dure come legno?

Invece all’improvviso se n’erano andate, erano sfrecciate nel cielo ed erano scomparse come una tromba d’aria dei cartoni animati e gli alberi erano ridiventati quelli di sempre.

La notte delle cicale.

Magica, quasi come se non fosse mai stata.

Invece c’era stata. Lei ne aveva la prova.

Dov’era Billy?

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