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Motor aveva dormito da cani e ora era torturato dal mal di testa. Niente giaciglio, niente guanciale, solo la giacca di pelle sul pavimento sconnesso di un appartamento abbandonato di Edgemont.

Le tavole di truciolare alle finestre e un cartello che parlava di terremoto appeso alla porta gli avevano indicato il luogo adatto dove pernottare. Aveva usato il coltello da caccia per scalzare le assi inchiodate alla porta di servizio, era entrato con la moto e aveva ispezionato l’abitazione portandola con sé. I locali erano tutti uguali, minuscoli, niente mobili, niente impianto elettrico o idraulico; scritte su tutti i muri; linoleum costellato di escrementi di topo, carcasse di scarafaggi, macchie di unto, bottiglie vuote. La stanza che finalmente scelse era sul retro. Tutto l’edificio puzzava di muffa e pelo bagnato di cane, carapaci di insetti, zolfanelli bruciati e un ultimo fetore che era peggio di tutti gli altri: un tanfo chimico che faceva lacrimare gli occhi.

Ma ci faceva buio e lui era stremato per aver girato tutto il giorno per Hollywood (un posto dove gli sembrava che il paesaggio non cambiasse mai) e poi per il Griffith Park a setacciare il territorio del sorcio. Ma aveva scoperto che il parco era troppo vasto per riuscire a farsene un’idea. Perché poi quella caccola aveva avuto bisogno di un luogo così immenso?

Aveva comperato tre hotdog con crauti e li aveva innaffiati con un malto al cioccolato. Poi si era recato al Cave, aveva lasciato la moto con tutte le altre davanti all’ingresso sperando che nessuno la guardasse troppo da vicino. All’interno aveva contato sul cameratismo degli affini e aveva dovuto invece spendere gli ultimi spiccioli per comperarsi una birra quando nessuno gliel’aveva offerta. Mangiando tre uova speziate e ficcandosi in tasca qualche Slim Jim prima che il barista lo guardasse di brutto.

A nessuno era fregato niente dell’identikit del sorcio. Guardavano tutti qualche cazzo di film su un televisore a grande schermo. Quando in una sequenza una pollastra aveva fatto qualcosa di particolarmente porno, in tutto il bar si era propagato un ringhio sommesso di approvazione.

Quaranta, cinquanta occhi gonfiati di anfetamine fissi su un’eiaculazione, nessuno che mostrasse interesse ai venticinquemila, tolto quell’unico che con scarso entusiasmo gli aveva detto che forse sapeva qualcosa. Motor si era accordato per rivedersi con lui l’indomani alle otto. Forse ci sarebbe andato, forse no.

Così aveva deciso di riposare. Non era l’Holiday Inn, ma niente che non avesse già visto. Anche se le esalazioni chimiche gli avevano fatto venire mal di testa, la solitudine gli andava a genio, come quella volta che era in cella con quel messico a Perdido, sbattuto dentro perché guidava ubriaco, tre giorni a respirare le scoregge di quello stronzo, e quando era ormai deciso a strozzarlo con le proprie mani, il quarto giorno, lo avevano portato via perché si era scoperto che era ricercato dai federali.

La solitudine era come qualcuno che ti massaggia il corpo, solo che non c’è nessuno, hai solo la sensazione piacevole.

Ora era venerdì mattina, le dieci, aveva gli occhi gonfi e la sola cosa di cui aveva voglia era tagliarsi via quella testa del cazzo e sostituirla con una che non gli desse l’impressione di essere sul punto di esplodere.

Pisciò per terra nella stanza accanto, sputò fuori il sapore cattivo della mattina, si strofinò gli occhi finché li riuscì a mettere a fuoco e spinse la moto nella luce del sole. Un sole schifosamente forte. Altra fregatura. Aveva fame, non aveva il becco di un quattrino, era ora di mettersi al lavoro.

Impiegò due ore per trovare una pollastra messicana che camminava tutta sola in una via messicana, senza piccoli gangster a proteggere il suo onore. La sorpassò, smontò, tornò indietro a piedi e lei era già atterrita. Ma lui proseguì e la donna si rilassò e fu quello il momento in cui si girò di scatto, le afferrò la borsetta e la scaraventò per terra.

«Guai a te se ti muovi», le intimò.

Lei non capì, ma interpretò il tono della sua voce. Le sferrò un calcio nelle costole giusto per non sbagliare, raggiunse la moto camminando per quanto velocemente glielo concedesse la mole e filò via guidando per un miglio.

Nella borsetta c’erano ventitré dollari, una croce di latta e foto di marmocchi messicani in strani costumi. Prese i soldi, buttò tutto il resto in uno scarico, tornò al boulevard, trovò lo stesso baracchino dove aveva comperato gli hotdog e ne acquistò altri due, assieme a un uovo fritto sul pane con salsa piccante, un caffè doppio in un tazzone che scolò e si fece riempire di nuovo, una focaccina alle mele e uno di quei piccoli contenitori di latte come quelli che gli davano a scuola e in prigione. Poi si sentì pronto per una giornata di duro lavoro.

Ripassò tutto il boulevard avanti e indietro con la faccia del bambino, raccolse solo occhiatacce, cominciò ad avere di nuovo appetito verso le tre, si costrinse a continuare per un altro paio d’ore e arrivò il momento che sentì di non poterne più. Ritenendo di essersi guadagnato il diritto a un pasto vero, andò da Go-Ji’s e consumò quasi tutti i soldi della messicana per un sandwich di manzo, patate fritte, anelli di cipolla, banana split doppio, altro caffè. A forza di sentirsi dire di riempire di nuovo la tazza, la cameriera nera finì per lasciargli la caraffa.

Qualcuno aveva lasciato sulla sua panca una parte di giornale, ma c’erano solo parole. Dietro il bancone c’era la televisione accesa: notiziari, sport, previsioni del tempo, una pizza da morirci. Poi vide di nuovo la faccia del sorcio. Smise di mangiare banane annegate nella panna montata e prestò attenzione. Aveva il cuore che gli sparava nel petto per via del caffè ed era più sveglio che mai e pronto a fare qualcosa, qualsiasi cosa.

Il coglione in TV parlava di una spiaggia: «… sarebbe stato visto nei pressi dell’Ocean Front Walk a Venice».

Allora quel tizio giù al Cave poteva anche andare a farsi fottere.

C’era da prendere la via dell’Ovest… dopo il tramonto. Se il sorcio l’avesse visto, non sarebbe stata una cosa buona.

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