Dormire sotto un tetto è bellissimo. All’inizio mi sono svegliato a tutte le ore, poi mi è passata.
Le coperte marrone che mi ha portato Sam sono ruvide, ma tengono caldo. Le lenzuola e i guanciali sanno di vecchio. Prima di spegnere le luci sono rimasto un po’ a guardare il soffitto della shul nella luce rossa della lampadina davanti all’arca. Sam non mi ha mai detto di non dormire nella shul, ma a me è sembrato poco rispettoso, così mi sono sistemato per terra vicino alla porta sul retro, di fianco al bagno. Ogni tanto sentivo il rumore di un’automobile che percorreva il vicolo e una volta ho sentito dei passi, probabilmente qualche pescatore di cassonetti, e per qualche secondo ho smesso di respirare, ma non era niente.
Credo di essermi addormentato fissando la lampadina rossa. Sam mi ha detto che non si spegne, è qualcosa come una luce eterna che serve a ricordare Dio agli ebrei. Poi ha riso e mi ha detto: «Sarebbe bello se fosse vero, eh, Bill? Quella lampadina salta ogni due o tre mesi e io mi devo arrampicare su una scala a rischio della vita».
Mi ha lasciato un panino e se n’è andato chiudendo a chiave.
Sono le 5.49 e sono in piedi da dieci minuti. Vedo rischiararsi le finestre a vetri colorati della facciata. Vorrei uscire a dare un’occhiata all’oceano, ma non ho la chiave per aprire la porta principale. Scuoto coperte e lenzuola, mi lavo in bagno e finisco il pezzo di panino che ho avanzato ieri sera. Poi apro appena appena la porta dietro e guardo fuori.
L’aria è fresca, anche fredda, volendo, piena zeppa di sale. Il vicolo è deserto. Esco e giro intorno alla sinagoga, dalla parte dove c’è la promenade. Non c’è in giro nessuno, solo gabbiani e piccioni. L’oceano è grigio scuro con qualche macchia di luce qua e là, come lentiggini arancio-rosa. Le onde vengono a riva molto adagio, poi rotolano all’indietro come se qualcuno avesse inclinato la terra, avanti e indietro, un viavai ritmico di sciacquio. Mi viene in mente una cosa che ho visto una volta in TV: cercatori d’oro che setacciano acqua di fiume. Dio inclina tutto il pianeta alla ricerca di qualcosa di prezioso.
Sto lì a guardare e ascoltare. Poi penso a quella donna al parco che non vedrà mai più l’oceano.
Chiudo gli occhi, stringo forte e soffio via quei pensieri.
Penso all’oceano, l’aria, l’odore di salmastro, un odore che mi piace. La fine del mondo è qui, più in là non si può scappare. Ci sono dei rifiuti sulla passeggiata, carte e bottiglie di birra e lattine, ma è tutto bellissimo lo stesso. Tranquillo e deserto e bellissimo. Non una sola persona in vista.
Mi piacerà sempre essere solo.
Ora il cielo dietro di me comincia a diventare più luminoso e la pelle del braccio mi si indora e vedo il sole, sta sorgendo, gigadontico e giallo tuorlo. Il caldo non lo sento ancora, ma con un sole così grande so che arriverà.
Adesso non sono più solo. A sud, forse a un isolato di distanza, vedo uno che arriva verso di me sui pattini a rotelle, in costume da bagno, con le braccia distese come se stesse cercando di decollare.
Mi ha sciupato la scena. Torno alla shul.
C’è la Lincoln di Sam, parcheggiata tutta storta come al solito; e lo trovo dentro a guardare un libro.
«Buongiorno», dico.
Lui si gira svelto, richiude il libro. Non ha l’aria contenta. «Dov’eri?»
«Fuori.»
«Fuori?»
«A guardare l’oceano.»
«L’oceano.» Perché ripete tutto quello che dico? Posa il libro, viene verso di me e per un secondo penso che voglia darmele e sono pronto a difendermi, ma lui prosegue e va a controllare che la porta sul retro sia chiusa a chiave, ci appoggia la schiena contro, davvero scontento.
«Vuole che vada via?» gli domando. «Ho fatto qualcosa che non dovevo?»
Lui soffia aria e si massaggia il collo. «Abbiamo un problema, Bill.» Si toglie qualcosa di tasca. Un pezzo di giornale. «Questo è di ieri», dice. «Siccome ho avuto a che fare con te, è andata a finire che l’ho letto solo stamattina.»
Me lo mostra. Leggo la parola omicidio. Poi vedo il disegno di un bambino.
Io.
Cerco di leggere l’articolo, ma le parole mi saltano sotto gli occhi. Anche lo stomaco. Il cuore comincia a spingermi contro il petto, ho freddo e ho la bocca secca.
Mi sforzo di leggere, non capisco niente, è come una lingua straniera. Sbatto le palpebre, mi schiarisco la vista, ma le parole sono lo stesso incomprensibili e continuano a saltare. Gli strappo il giornale dalla mano e lo tengo vicino, finalmente comincio a farmi un’idea.
La donna uccisa al parco ha un nome. Lisa. D’ora in poi devo pensare a lei come a Lisa.
Lisa Boehlinger-Ramsey. Il suo ex marito è un attore, Cart Ramsey. Un serial che s’intitola The Adjustor. Non mi è nuovo. Mi pare che Moron lo guardava.
C’è qualcuno che offre venticinquemila dollari per trovarmi.
Corro alla porta. Sam non cerca di fermarmi.
Sto per aprire e mi si congelano i piedi.
Dove vado?
Sarà una giornata calda, con molta luce, e un sacco di gente che vuole quei soldi; al sole non potrò nascondermi. Qualcuno, forse più di uno tutti insieme, mi prenderà e mi legherà e mi consegnerà alla polizia.
Sam è fermo dov’era. «Puoi restare qui tutto il giorno, ma non ti scordare che oggi è venerdì e questa sera c’è la funzione, trenta, quaranta alter kocker, fedeli che arrivano mezz’ora prima del buio, non posso farci niente.»
Non respiro molto bene e mi sento il petto schiacciato; apro la bocca, la spalanco per catturare dell’aria, ma non ne entra molta. La pancia mi fa più male che mai e il cuore continua a spingermi contro il petto, ciac ciac, proprio come è successo a… Lisa.
«C’è una cosa che dovresti considerare, Bill. Venticinquemila dollari sono una discreta sommetta. Se sai qualcosa di questa storia, perché non fai il bravo cittadino e ne approfitti per guadagnarci anche qualcosa?»
«Io non so niente.»
Lui alza le spalle. «Come vuoi. Lo accetto. Non sei tu, è uno che ti somiglia. Ma visto quanto ti somiglia, come pensi di andare in giro?»
La notte scorsa ho dormito molto bene, eppure ora sono stanco, ho solo voglia di sdraiarmi.
Mi siedo su una panca e chiudo gli occhi.
«Aver assistito a una scena come quella, Bill… be’, si capisce che hai paura. Io lo so. Ho visto cose terribili anch’io.»
Io tengo gli occhi chiusi come incollati.
«Uno vede una cosa del genere e vorrebbe non averla mai vista, perché sa che da quel momento in poi qualcosa dentro di lui cambierà per sempre. Ecco dove sta la grande differenza in questo mondo, Bill. Quelli costretti a vedere cose terribili e tutti gli altri, che non sanno niente e vivono la loro vita tranquilla. Non ti dirò che vedere è un bene. È una porcata, nessuno sceglierebbe di vedere se potesse. Il solo fatto positivo è che si può venirne fuori più forti. Non devo stare a dirtelo io, tu sei già forte. A vivere in giro senza una casa, badando a te stesso come hai fatto, sei stato in gamba. Considerato che cosa hai passato, devo farti i miei complimenti. Davvero, Bill. Sei stato grande.»
Dice parole belle, cerca di farmi stare meglio. Perché è come un pugno allo stomaco?
«Una parte del mio cervello», continua, «mi dice di chiamare la polizia, proteggerti… No, no, non temere, non lo faccio, ti sto solo spiegando che cosa penso. L’altra parte, quella che dev’essere la parte forte, mi ricorda che cosa è successo a me quando avevo più o meno la tua età. Ricordi quei nazisti di cui ti ho parlato? Alcuni di loro erano poliziotti, diavoli in divisa. Dunque non è sempre semplice, vero? Uno vuole fare le cose giuste, non violare la legge, ma non è sempre semplice, vero?»
Mi posa le mani sulle spalle. «Con me sei al sicuro.»
È sincero. Mi dà conforto.
Perché allora non posso fare a meno di piegarmi, abbassarmi tanto da toccare quasi per terra con la fronte e adesso mi fanno male anche gli occhi e non posso smettere di dondolarmi avanti e indietro e tremo tutto e piango.
Come un bebè, maledizione, non riesco a fermarmi!
Con tutto quello che è successo, perché piango adesso?