Le scimmie sono quelle che urlano di più. Sono solo le sei e fanno già chiasso.
Lo zoo aprirà tra quattro ore. Io sono stato quassù quando è pieno di gente, si sente soprattutto baccano, ma certe volte distinguo una parola, per esempio i bambini che strillano perché vogliono qualcosa. «Gelato!» «Leoni!»
Quando allo zoo c’è gente, gli animali stanno tranquilli, ma di notte si scatenano; senti gli strepiti di quelle scimmie… e adesso quest’altro verso profondo, di qualcosa di pesante e stanco, forse un rinoceronte. Mi pare quasi di sentirlo parlare: Fatemi uscire da qui! Siamo chiusi qui dentro per colpa della gente, che cosa brutta che è la gente!
Se uscissero davvero, i carnivori salterebbero addosso agli erbivori, quelli lenti, quelli deboli, li ucciderebbero e li mangerebbero e rosicchierebbero le ossa.
Un mese fa circa ho esplorato il recinto di filo spinato intorno allo zoo, ho trovato un cancello in cima in cima, sopra Africa. C’era un cartello con scritto: RISERVATO AL PERSONALE — VIETATO ENTRARE. Il lucchetto c’era, ma era aperto. Io l’ho tolto, sono entrato, ho rimesso il lucchetto, mi sono trovato in un posto pieno di quei piccoli veicoli marrone chiaro che quelli dello zoo usano per andare in giro. Dall’altra parte c’erano delle costruzioni che puzzavano come di merda di animali con i pavimenti di cemento che erano appena stati lavati con la canna. Più avanti ancora altre piante fitte e un sentiero con un altro cartello: SOLO PERSONALE AUTORIZZATO.
Sono entrato allo zoo come un visitatore qualsiasi, sono salito con tutti gli altri nella grande uccelliera dove si può entrare, ho visto tutti i bambini piccoli che strillavano. Poi ho fatto il giro completo. Mi sono divertito quel giorno a studiare e leggere i cartelli che insegnano degli habitat naturali e le abitudini alimentari e le specie in pericolo. Alla casa dei rettili ho visto un serpente reale con due teste. Nessuno mi ha guardato in modo strano. Per la prima volta dopo molto tempo mi sono sentito tranquillo e normale.
Avevo portato con me un po’ di soldi delle mie riserve e ho comperato una banana gelata e una pannocchia caramellata e una coca. Ho mangiato troppo in fretta e mi è venuto mal di pancia, ma non importava, era come se nel mio cervello si fosse aperto uno sprazzo di cielo azzurro.
Forse oggi provo ad andarci di nuovo.
Forse è meglio di no. Devo prima assicurarmi di non essere una specie in pericolo.
Non posso smettere di pensare a quella donna, a quello che le ha fatto quel tizio.
Orribile, orribile, il modo in cui l’ha stretta, ciac ciac. Come può venire in mente a qualcuno di fare una cosa così?
Perché Dio lo permette?
La pancia comincia a farmi male da morire e respiro cinque volte a fondo per calmarla.
Ho camminato tutta notte senza sentire troppo male ai piedi, ma adesso lo sento e le scarpe mi sembrano troppo strette. Le tolgo. Anche le calze. Credo che sto crescendo, è da un po’ che sento le scarpe troppo strette. Sono vecchie, quelle che avevo quando sono scappato, e in certi punti le suole sono molto sottili, quasi bucate.
Concedo un po’ d’aria ai piedi, muovo le dita prima di srotolare la mia plastica.
Ah… che bello!
Al Cinque non c’è acqua per fare il bagno. Che forza sarebbe andare allo zoo e buttarmi nella vasca dei leoni marini a nuotare un po’! Con i leoni marini tutti impauriti, che non capiscono che cosa sta succedendo. Mi devo sforzare di non mettermi a ridere forte.
Puzzo di piscia. Non sopporto quando puzzo, non voglio diventare uno di quelli che vanno in giro con i carrelli del supermercato, quelli che li senti arrivare dall’odore quando sono ancora lontani un isolato.
Mi è sempre piaciuto molto fare la doccia, ma quando è arrivato Moron l’acqua calda è scomparsa. Non perché la usava. Mamma voleva sapere di buono per lui, così aveva preso l’abitudine di stare mezz’ora sotto la doccia e poi mettersi profumo spray e tutto il resto.
Perché voleva far colpo su di lui? Perché le piacevano tanto tutti quei falliti?
Ho passato un sacco di tempo a pensarci e la sola risposta che sono riuscito a trovare è che non si vuole molto bene.
So che è così perché quando rompe qualcosa o fa qualche errore, come per esempio tagliarsi mentre si rade le gambe, se la prende con se stessa, si chiama con brutti nomi. L’ho sentita piangere di notte, ubriaca o fatta, e dirsene di tutti i colori. Molto meno da quando è arrivato Moron, perché lui minaccia di suonargliele.
Io andavo in camera sua, mi sedevo accanto a lei, le toccavo i capelli, le dicevo: «Che cosa c’è, mamma?» Ma lei si tirava sempre indietro e diceva: «Niente, niente», con la voce arrabbiata. Così dopo un po’ ho smesso.
Poi un giorno ho capito che piangeva per me. Per avermi avuto senza averlo voluto, per dovermi tirare su senza sentirsi capace di farlo.
Io ero la sua tristezza.
Anche su quello ho pensato per un sacco di tempo, decidendo che la soluzione migliore era imparare quanto più possibile per trovarmi un buon lavoro ed essere io a occuparmi di lei. E poi c’era la speranza che vedendo che andavo bene non si sarebbe sentita così incapace.
Il sole è uscito del tutto, caldo e arancione fra gli alberi. Sono veramente stanco e mai e poi mai riuscirò a dormire. È ora di srotolare la plastica.
Io uso i sacchi di plastica da tintoria per avvolgerci le mie cose, per portarle in giro e per proteggerle da pioggia e sporcizia. Su tutti i fogli c’è stampato l’avviso che i neonati possono soffocare se ci finiscono dentro e che è plastica sottile, facile da strappare. Ma se metti tre teli uno sopra l’altro diventano forti e come protezione vanno benissimo. Li trovo soprattutto nelle immondizie, ne tengo un po’ arrotolati in tutti e cinque i miei posti, sotto i sassi, nella grotta, dappertutto.
Una cosa che ha di buono il Cinque è un albero: un enorme eucalipto con foglie rotonde blu argento che sanno di caramelle contro la tosse. So che è un eucalipto perché quella volta che sono stato allo zoo sono andato alla casa dei koala, che era piena proprio di quel tipo di alberi e c’era scritto: EUCALYPTUS POLYANTHEMUS. Sul cartello si diceva che i koala mangiano eucalyptus polyanthemus, gli basta quello per vivere, e io mi sono domandato come sarebbe stato per me trovarmi prigioniero del Cinque con nient’altro da mangiare che alberi. Ho chiesto a una ragazza dello zoo e lei ha sorriso e ha detto che non ne aveva idea ma che preferiva gli hamburger.
Questo albero in particolare ha un tronco così grosso che riesco appena ad abbracciarlo e i rami pendono, toccano terra, sempre in movimento. A starci dentro è come trovarsi in una nuvola blu argento e, nascosta dietro i rami, proprio contro il tronco, c’è una grande pietra piatta e grigia. Sembra più pesante di quello che è e io riesco a sollevarla abbastanza da metterci sotto qualcosa per tenerla parzialmente aperta, come si fa con un cric per alzare una ruota. Mi ci è voluto poco per scavarci sotto fino a creare un buon nascondiglio. Quando la pietra è di nuovo posata per terra, funziona come il coperchio di una botola.
Sollevarla adesso mi è un po’ più difficile perché ho le braccia indolenzite per aver trasportato tutta notte la roba del Posto Due, ma uso una scarpa per alzare la pietra e tirare fuori la roba del Posto Cinque che ho avvolto nella plastica: due paia di slip Calvin Klein che ho comperato il mese scorso a una svendita di Los Feliz, troppo grandi, con LARRY R. scritto a inchiostro dentro l’elastico. Dopo che li ho immersi nel Fern Dell, sono diventati grigi, ma puliti. Una torcia di riserva e due batterie, una confezione ancora ben chiusa di carne salata che ho preso da un Pink Dot sul Sunset. Un bottiglione da due litri di coca e una scatola nuova di Honey Nut Cheerios che ho comperato il giorno dopo allo stesso posto perché provavo rimorso per aver rubato la carne. Alcune vecchie riviste che ho trovato dietro a una casa di Argyle Street, Westways, People, Reader’s Digest. E il vecchio cartone di latte Knudsen all’un per cento di grassi che mi serve per tenerci penne e matite, copertine, carta per scrivere arrotolata e altra mercanzia.
Sul cartone c’è la faccia di un bambino, un bambino nero che si chiama Rudolfo Hawkins, che è stato rapito cinque anni fa. Nella foto ha sei anni e indossa una camicia bianca con la cravatta e sorride. Gliel’avranno scattata al compleanno o in qualche altra occasione speciale.
C’è scritto che è stato rapito da suo padre a Compton, in California, ma che potrebbe essere a Scranton, in Pennsylvania, o a Detroit, nel Michigan. All’inizio mi capitava di stare a guardare la sua faccia chiedendomi che fine può aver fatto. Dopo cinque anni probabilmente si è sistemato… almeno era stato suo padre e non qualche maniaco.
Forse è di nuovo a Compton con sua madre.
Ho pensato a mamma che mi cerca e non è che riesco proprio a convincermi che lo stia facendo.
Quand’ero piccolo, cinque o sei anni, mi diceva sempre che mi voleva bene, che facevamo coppia, io e lei, due contro il mondo schifoso. Poi si è messa a bere e a farsi più spesso e a pensare sempre meno a me. Quando Moron è venuto a stare da noi, io sono diventato invisibile.
Allora perché dovrebbe cercarmi?
Anche se volesse, non saprebbe da che parte cominciare perché non è mai andata a scuola.
Moron sarebbe un problema. Direbbe cose come: «E che vada a farsi fottere quella caccola, Sharia. A lui non gliene fregava un cazzo, allora che si fotta. E passami quelle noccioline».
Ma anche senza Moron, non riesco a pensare a come si sente mamma. Magari è triste perché me ne sono andato, magari è arrabbiata.
O magari è più contenta. Non aveva avuto il desiderio di avermi. Ha cercato, penso, di tirar fuori il meglio che poteva da quel che aveva.
So che si è presa cura di me all’inizio perché ho visto le foto di quand’ero molto piccolo che lei tiene in una busta in un cassetto della cucina e nelle foto sono sano e felice. Lo siamo tutti e due. Sono foto di Natale, c’è un albero pieno di lucine e lei mi tiene in alto come un trofeo, con un grande sorriso sulle labbra. Come a dire, ehi, guardate che cos’ho ricevuto io per Natale!
Il mio compleanno è il 10 agosto, dunque in quelle foto avevo quattro mesi e mezzo. Ho un orribile faccione grasso con le guance rosa e niente capelli in testa. Mamma è pallida e magra e mi ha messo addosso uno stupido vestito da marinaretto. Un sorriso così beato non gliel’ho mai visto in faccia, dunque un po’ della sua felicità doveva essere per me, almeno in principio.
Visto che i suoi genitori erano morti in un incidente di macchina prima che io nascessi, che cos’altro avrebbe potuto farla sorridere così?
Sul dorso delle foto ci sono degli adesivi di Good Shepherd Sanctuary, Modesto, California. Le ho chiesto che cos’era e lei mi ha detto che era un posto cattolico e anche se noi non siamo cattolici, quando io ero appena nato ci siamo vissuti. Quando ho cercato di saperne di più, lei ha messo via le foto e ha detto che non era importante.
Quella notte ha pianto per molto tempo e io ho letto il mio libro di Jacques Cousteau per non sentirla.
Dovevo averla resa felice a quei tempi.
Adesso basta con queste sciocchezze, è ora di srotolare la plastica del Posto Due, ecco qui, spazzolino da denti e Colgate, campioni gratuiti che ho preso da una cassetta per le lettere senza nome, c’era giusto scritto RESIDENTE, dunque non appartenevano in realtà a nessuno. Un altro paio di mutande prese da un bidone per le immondizie dietro a una delle case enormi in fondo al parco, un mazzetto di bustine di ketchup, senape e maionese, prese dai ristoranti. I miei libri…
Solo uno. Algebra.
Dov’è il libro dei presidenti che ho preso in biblioteca? Dev’essere da qualche parte nella plastica, ho usato tre strati… no, non è qui. Possibile che è caduto quando ho aperto il pacco? No. Forse mi è scivolato qui vicino…
Mi alzo, cerco.
Niente.
Torno sui miei passi per un tratto.
Niente libro dei presidenti.
Dev’essermi cascato nel buio.
Oh no. Merda. Avevo intenzione di restituirlo.
Adesso sono un ladro.