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Dico al vecchio: «No, ce li ho ancora, ma non mi spiacerebbe averne degli altri. Ha del lavoro da darmi?»

Lui si spinge gli occhiali su per il naso. «Allora parli. E vuoi lavorare, eh? Quanti anni hai?»

«Quanti bastano.»

Lui si avvicina. «Senti, se sei in qualche guaio, se stai scappando per qualche ragione, forse ti posso dare una mano. Perché un ragazzo della tua età non dovrebbe stare in giro tutto solo.»

Io indietreggio. «Non ho bisogno di aiuto. Solo lavoro.»

«Hai il permesso?»

Non gli rispondo. «Un permesso di lavoro», dice lui. «È la legge. Per proteggere i bambini. Una volta costringevano i bambini a lavorare, ora non si può più. Non negli Stati Uniti.»

Dunque non mi aiuterà. Faccio per andarmene.

«Aspetta. Hai detto che vuoi lavorare? Benissimo.»

Mi fermo. «Che cos’ha da offrire? Quanto paga?»

Lui sorride di nuovo. «Un ometto d’affari. Allora, senti, questa sinagoga…» Muove il pollice sopra la spalla. «Questa sinagoga durante la settimana non viene usata, ma non sarebbe male se ci fosse qualcuno che la tiene pulita prima delle funzioni del venerdì. Ci dia un’occhio, come dire.»

«Un sorvegliante?»

«Solo di giorno, s’intende. Di notte no perché non c’è posto dove dormire. Tu hai dove dormire?»

«Sicuro.»

«Qui di notte è pericoloso», dice lui avvicinandosi. «Tu è da un po’ che vivi in strada, vero?»

Non gli rispondo.

«Non voglio fare l’impiccione, figliolo, ma forse ti posso aiutare. Perché ci sono passato, credimi.»

Lo dice in un certo modo e gli si cambia la faccia. Mi ricorda qualcosa che ho imparato a scienze. Metamorfosi. Sento che dice la verità.

«Dev’essere stato molto tempo fa», commento.

Lui mi guarda. Ride. «Oh sì, molto davvero. Eravamo ancora all’età della pietra.»

Ha un modo di ridere buffo, dalla gola, come se gli salisse dalla pancia. Non posso resistere. Mi viene da sorridere.

«Ah, ma allora non sei sempre imbronciato. Dunque forse la vita non è poi tutta brutta.»

Così mi fa scappare la voglia di sorridere.

«Lo è?» dice lui. «Qualcuno ti ha fatto così male?»

In sinagoga mi mostra un armadietto nel bagno degli uomini dove c’è il materiale per le pulizie. Scopa, paletta, spazzettone e secchio, Windex per le finestre, Lemon Pledge per il legno. Anche una crema per pulire l’argento, ma quella la lascia lì. Vede che la guardo.

«Vieni qui, figliolo. A proposito, hai un nome? Io mi chiamo Sam Ganzer.»

«Figliolo va benissimo.»

Si stringe nelle spalle, mi porge la mano, gliela stringo. Mi sembra un pezzo di carne rinsecchita.

«Piacere di conoscerti», dice.

«Altrettanto.»

Mi porta nell’ambiente principale della sinagoga, dove c’è un grande armadio di legno intagliato che non ho avuto il tempo di aprire. Arriva fino al soffitto ed è coperto da una tenda blu di velluto. Tira un cordone e la tenda si apre. Dietro ci sono due ante su cui sono incise dieci piccole scene. Scene della Bibbia. Riconosco l’Arca di Noè, Mosè nella culla. Ce ne sono altre che non capisco.

Niente su Gesù. Naturale. Io penso che è tutto molto strano. Che ci faccio qui?

Dentro ci sono altre tre cose coperte di velluto blu con scritte in ebraico e pali di legno che vengono fuori da sopra e sotto e manici d’argento, solo di sopra. La prima dice: Donato da Saul e Isadore Levine in memoria del loro padre Hyman.

Davanti ci sono dei piatti d’argento.

«Sai che cosa sono queste?» chiede Sam.

«No.»

«Le Torah. La Bibbia ebraica. Tu credi nella Bibbia, vero?»

Io non so in che cosa credo, ma annuisco.

«Dunque capisci che questi sono oggetti sacri, giusto?»

«Non si preoccupi, non ruberò l’argento», prometto.

Lui diventa rosso come un pomodoro. «Non è quello che stavo insinuando, figliolo. Voglio solo che tu sappia che qui abbiamo a che fare con cose di grande importanza. Quindi quando ti chiedo di lucidare l’argento, farai più attenzione del solito. Capito?»

«Capito.» Anche se so che cosa intendeva davvero.


Ci accordiamo così: io spazzo e lavo il pavimento di tutta la shul, inclusi i bagni, passo il Windex sulle finestre e il Lemon Pledge sui legni. Per ultimo lucido l’argento, perché prima mi deve procurare altri stracci.

«E ricordati che il lucidante è molto forte, quindi respirane il meno possibile», mi raccomanda. «Capito?»

«Capito.»

«Dico sul serio», ribadisce. «Non è che ti piace sniffare, vero? Colla, vernice… non fai quelle cose, vero? Niente droghe?»

«Mai», rispondo. «Nemmeno una volta.»

«Ti credo», dice lui. «Mi sembri un bravo ragazzo. Mi piacerebbe sapere che ci fai a vivere in strada nutrendoti di cracker, ma sono affari tuoi.»

Io resto zitto.

«Non voglio entrare qui e scoprire che sei svenuto perché hai respirato le esalazioni della crema per l’argento», dice. «Credimi se ti dico che me ne intendo, ho avuto un negozio di ferramenta per quarant’anni. Verso la fine venivano drogati e sbandati a comperare colle e fissanti. È evidente che nessuno di loro aveva mai montato anche solo un lavandino.»

Ragazzi, quanto parla.

«Starò attento», prometto.

«Un’altra cosa. Oggi è giovedì e domani sera ci sarà la funzione. E anche sabato, quindi di sabato non mi servi.»

«Va bene lo stesso. Dopo oggi credo che non ci sarà più niente da fare.»

Lui si mette le mani in tasca. «E ora veniamo alla questione principale. Quanto vuoi?»

«Quello che le sembra giusto.»

«Quello che sembra giusto a me? Vuoi dire che se stabilisco due centesimi l’ora a te andrebbe bene?»

«Mi aspetto che sarà onesto.»

«Mi lusinghi, figliolo, ma se vuoi diventare un uomo d’affari devi imparare a stabilire un prezzo.»

Io ci penso per un po’. Quanto pagano i ragazzi a cuocere burger ai McDonald’s? Non lo so. Proprio non lo so. «Due dollari l’ora.»

«Due dollari l’ora? Il salario minimo è più di cinque. Tu non pensi di valere il salario minimo?»

«D’accordo, sei.»

«Cinque e cinquanta.»

«Accettato!» grido e ne sono sorpreso.

«Non sono sordo», fa lui. «Cinque e cinquanta l’ora e mi sembra di poter calcolare che avrai da smanettare per otto, nove ore. Facciamo cinquanta dollari in tutto. Qui c’è un anticipo.»

Prende il portafogli e a un tratto mi ritrovo con due biglietti da dieci in mano. Me li metto in tasca e non riesco a credere di essere così fortunato.

«Il resto quando avrai finito. Passerò tra qualche ora a controllare.»

Si avvicina di nuovo, si ferma. «Un’ultima cosa. Questa è una piccola transazione personale, niente ritenute per tasse e fondo pensione. Voglio sperare che non ti verrà in mente di denunciarmi alle autorità. D’accordo?»

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