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Sam Ganzer non parcheggiò molto bene la Lincoln. Il ventenne transatlantico era troppo largo per l’uno o l’altro dei due posti dietro la shul, quindi li sfruttò entrambi.

Chi avrebbe protestato? La sinagoga, che era stata un alacre centro sociale per gli ebrei di Venice, funzionava ormai solo durante il fine settimana e se apriva le porte prima del venerdì sera era solo per lui.

E persino il venerdì era spesso difficile mettere insieme dieci uomini per un minyan. Beth Torah non era abbastanza ortodossa per gli yuppie yarmulke che avevano popolato Venice e che pertanto avevano dato origine a una congrega propria a qualche isolato di distanza, avevano fatto arrivare da New York un rabbino fanatico con il barbone e avevano eretto un divisorio tra uomini e donne. Eccessi di cui i vecchi frequentatori della shul, quasi tutti di sinistra, non volevano nemmeno sentir parlare.

Tutto questo era accaduto cinque anni prima. Ora la gran parte dei frequentatori abituali erano morti. Sam sapeva che prima o poi Beth Torah avrebbe dovuto chiudere, sarebbe stata venduta. Forse se ne sarebbero impossessati gli yuppie, sempre meglio che vedere l’ennesimo scialbo esercizio commerciale andare ad aggiungersi alle decine che occupavano l’Ocean Front Walk. A Sam gli yuppie non erano indigesti come a certi vecchi socialisti. Nutriva una sfiducia radicata nei confronti delle autorità ma in cuor suo era un uomo d’affari. In ogni caso parcheggiava come piaceva a lui e tanti saluti.

Gli sembrava di essere vissuto un’eternità. A settantun anni, il suo corpo era ancora in ottima forma. Suo fratello Emil, che viveva a Irvine e non era per niente religioso, ne aveva settantasei. Un’ottima partita, generazioni di robusti e solidi fabbri e carpentieri temprati dai rigidi inverni ucraini.

C’era voluta la pura e semplice cattiveria per potare quasi tutti i rami dell’albero Ganzer.

Madre, padre, tre fratelli minori e due sorelle spediti a Sobibor e mai più rivisti. Avram, Mottel, Baruch, Malkah, Sheindel. Se fossero emigrati in America, come si sarebbero fatti chiamare? Probabilmente Abe, Mort, Bernie, Marilyn, Shirley. La settimana prima aveva sollevato la questione con Emil, che aveva voluto parlarne.

Quarantacinque in tutto erano stati i Ganzer e i Leibovic rastrellati dalla polizia ucraina e consegnati alla feccia nazista d’occupazione. Sam ed Emil, giovani muscolosi (Emil era campione dei pesi leggeri alla palestra di Kovol) erano stati risparmiati e messi ai lavori forzati. Giornate di diciotto ore da sostenere con una minestra annacquata e pane di segatura. Fuga di mezzanotte nella neve, latitanza nella foresta mangiando foglie e noci, a rischio di morire d’inedia se non fossero stati accolti da una santa donna cattolica. Quando il figlio era tornato dalla guerra, avrebbe voluto consegnarli, così i fratelli Ganzer erano scappati di nuovo, camminando fin quasi a morirne, raggiungendo infine Shanghai. I cinesi li avevano aiutati. Sam si chiedeva ancora come sarebbe stata la sua vita se si fosse fermato, se avesse sposato una di quelle stupende fanciulle di porcellana. Invece c’era stata la liberazione, e poi Canada, Detroit, L.A.

Per anni non aveva più pensato a quelle avventure. Ultimamente invece i ricordi avevano cominciato a riaffiorare contro la sua volontà. Forse qualche guaio al cervello. Il suo corpo era forte, ma nomi e luoghi erano appannati, entrava in una stanza e si era dimenticato perché. I fatti antichi però erano limpidi nella sua mente. Tutto quel furore… se lo sentiva pulsare nelle orecchie, faceva male alla pressione del sangue.

Spense il motore della Lincoln e scese. Da quando era morto il signor Ginzburg, il venerdì e il sabato sera fungeva da sagrestano. A quel ruolo non retribuito erano abbinati obblighi di manutenzione. Perché no? Che cos’altro aveva da fare oltre a suonare il mandolino e starsene seduto davanti a casa a prendere troppo sole? Aveva già subito l’asportazione di quattro lesioni precancerose dal volto e una dalla pelata. Costretto a girare con uno stupido berretto, come i vecchietti.

Se lo tolse ora, lo gettò nella Lincoln, si gongolò ancora una volta di come aveva parcheggiato. Meglio così che lasciare posto a qualche tossicodipendente, perché vi si infilasse a bordo di qualche macchina rubata per farsi la pera quotidiana. Quante volte era già avvenuto. Quello che era sempre stato un quartiere di svitati era diventato un coacervo di occhiuti turisti nei fine settimana e un verminaio di sbandati tutte le notti.

L’Ocean Front si era trasformato in una specie di gigantesco accampamento di zingari. Smercio di stupefacenti di notte, calca invivibile nei weekend, quando non riuscivi a fare un passo senza sbattere in qualcuno.

Per quarant’anni Sam ed Emil avevano venduto articoli di ferramenta e idraulica in un negozio sul Lincoln Boulevard, cose che si potevano usare. Abili entrambi nelle installazioni, non solo nelle vendite, capaci di dotare una casa di un impianto idraulico completo. Bisogna saper usare le mani quando si vive da soli e non si vuol dipendere da nessuno. Quando aveva lasciato Shanghai aveva giurato a se stesso di diventare autonomo. Forse per questo non si era mai sposato. Anche se le donne lo adoravano. Aveva avuto le sue belle storie. Ancora oggi di tanto in tanto s’infilava sotto un lenzuolo in compagnia di una morbida nonnina imbarazzata da quello che l’età aveva rubato al suo corpo. Sam sapeva come farle sentire giovani e belle.

Si frugò in tasca, trovò la chiave della shul e aprì la porta sul retro. Non si accorse che la zanzariera della finestra del bagno era per terra, perché quell’angolo era parzialmente bloccato dalla sua ruota anteriore destra.


Qualche momento dopo essere entrato, capì che c’era stato qualcuno.

Il pushke argentato era posato sulla pedana. Scintillava in contrasto con il velluto blu. La cassetta per le offerte non era stata più usata dall’ultimo venerdì, quando era stata fatta passare tra i fedeli prima della funzione. Era stato Sam stesso a riporla in un armadietto sotto la libreria. La serratura era delle più semplici, perché non c’era motivo di custodire con eccessivo puntiglio una cassetta che conteneva solo pochi dollari in monetine.

Ma qualcuno ci aveva provato lo stesso. E guarda, dallo stesso armadietto era stato sottratto del cibo. Spizzichini per i frequentatori abituali del sabato mattina, qualche cracker e una scatola rosa acquistata da un panettiere di Fairfax. Conteneva kichlen ricoperti di zucchero a forma di papillon. L’aveva comperata proprio lui la settimana scorsa. Senza conservanti, dovevano essere diventati immangiabili. Si era dimenticato di buttarli.

Briciole sul velluto blu. Una moneta da un quarto e una da dieci centesimi erano cascate dal pushke. Ladro affamato. Che cos’altro aveva preso?

I soli oggetti di valore per un tossico erano i fiori crociformi e le gemme del razionale che ornavano le tre Torah nell’arca. Sam si avviò verso lo scrigno di noce intagliato pronto a sollevare la tenda di velluto blu, angosciato da un brutto presentimento.

Poi si fermò e alzò istintivamente le braccia muscolose. Forse il delinquente era ancora in sinagoga. Gli ci mancava solo di essere aggredito da un drogato.

Non accadde nulla. Silenzio. Nessun movimento.

Fermo dov’era, si guardò intorno.

La shul era costituita da quattro locali, un piccolo ingresso davanti, servizi per uomini e donne sul retro, e al centro il luogo di fede vero e proprio, file di inginocchiatoi di legno per centocinquanta persone.

La porta principale era protetta da una serratura doppia, impossibile entrare o uscire senza la chiave. Lo stesso per il retro. Allora come…

Attese ancora qualche minuto, si convinse di essere solo, ma volle accertarsene con un’ispezione. Poi andò a controllare la porta principale. Ancora sprangata. Nessun segno di scasso.

Fu nel retro che risolse l’enigma. La finestra del bagno delle signore era chiusa, ma la zanzariera non c’era più. Era per terra, vicino alla ruota della sua Lincoln. Sul davanzale erano cadute scaglie di verniciatura.

Aveva chiuso la porta prima di andarsene? Ladro meticoloso?

Tornò nel tempio, aprì l’arca, esaminò le Torah. Tutto a posto. Nemmeno il pushke a forma di bottiglia era stato svuotato e la serratura non presentava graffi. Solo Sam e il signor Kravitz conoscevano la combinazione e svuotavano a turno la cassetta tutte le settimane per consegnare il ricavato al centro di assistenza per gli indigenti. Un tempo la Beth Torah aveva orgogliosamente contribuito con cinquanta dollari la settimana. Ora era scesa a dieci, dodici. Molto imbarazzante, così Sam ce ne metteva venti del suo. Che cosa facesse Kravitz, non aveva idea. Ma conosceva il suo animo da sparagnino.

Ispezionò il pushke, lo agitò. Ancora pieno. A parte le monete cadute. Strano.

Erano scomparsi alcuni kichlen e, per quel che poteva vedere, non pochi cracker.

Un ladruncolo affamato, probabilmente qualche barbone, troppo rintronato da sapere che cosa stava facendo, uno di quei mattoidi che battevano la promenade. Qualche volta gli capitava di dar loro qualche soldo, altre volte preferiva non averci a che fare.

Un mattoide smilzo, perché la finestra del bagno era piccola. I tossici smagriscono. E non avevano sempre fame di caramelle? Pazienza, non era una gran perdita. Ripose le monete nel pushke, spazzò via le briciole dal velluto, chiuse la scatola dei cracker e quella dei dolci e riportò tutto alla libreria. Aprì l’armadietto dove teneva gli spuntini e vide qualcos’altro che il ladruncolo non aveva toccato: gli alcolici.

Schnapps per i frequentatori abituali, una bottiglia quasi piena di Crown Royal e una mezzo vuota di vodka Smirnoff.

Un tossico con un vizio solo? Che non beve alcolici?

Vicino alle bottiglie c’erano alcuni scialli da preghiera ripiegati. Quelli piccoli, di seta, a strisce blu, ma anche il grande tallis di lana a strisce nere che indossava il conduttore delle orazioni. Il suo posto era in uno stipo sotto la pedana. Com’era finito lì?

Era stato lui a mettercelo? Era stato Kravitz? Si sforzò di ricordare, dannata memoria… l’ultimo shabbos… sì, sì, la signora Rosen non si era sentita bene e Sam era uscito prima del solito per riaccompagnarla a casa, aveva lasciato chiudere a Kravitz. Così sbadato, quell’uomo.

Prese lo scialle di lana e si accorse che Kravitz non lo aveva nemmeno ripiegato a dovere. Un klutz. Aveva lavorato una vita intera al dipartimento delle Acque e che cosa ti puoi aspettare da un mezzemaniche?

Sam ripiegò lo scialle, ne accarezzò la lana spessa e lo portò alla pedana, dove si chinò per aprire il vano.

Dentro c’era un bambino.

Piccolo, pelle e ossa, raggomitolato in un angolo, mezzo morto di paura.

Fiato corto. Sam vide il suo petto alzarsi e riabbassarsi e poi lo sentì, un rantolo roco e concitato come un attacco d’asma.

E quell’espressione.

Sam la conosceva bene. La sua famiglia, i volti ai finestrini del treno.

I prigionieri al campo che non ce la facevano.

Persino la faccia del coriaceo Emil quella volta che si era ammalato di polmonite; aveva creduto di essere spacciato.

La sua stessa faccia quando, nel pieno dell’inverno, aveva trovato un pezzo di vetro nella neve e lo aveva usato come specchio, per guardare come si era ridotto.

Esattamente così era l’espressione del bambino.

«È tutto a posto», disse.

Il bambino rabbrividì. Si stringeva il corpo come se avesse freddo e anche se era giugno, in California, una splendida giornata di sole, Sam si sentì percorrere da un gelido alito ucraino.

«È tutto a posto», ripeté. «Vieni fuori, non mordo.»

Il bambino non si mosse.

«Coraggio, non puoi restare lì tutto il giorno. Hai ancora fame? Non basteranno i cracker, andiamo a prenderti qualcosa di più nutriente.»


Ci volle del tempo per persuadere il bambino a uscire dal suo nascondiglio, dovette indietreggiare abbastanza da lasciargli tutto lo spazio. Quando fu finalmente fuori, si vedeva che avrebbe voluto scappare.

Sam lo trattenne per un braccio, un ossicino rivestito di pelle. Altri ricordi.

Il bambino si divincolò, cercò di scalciare. Sapendo come ci si sentiva a essere trattenuti, Sam lo lasciò andare e il bambino si precipitò verso la porta.

La scrollò, ma era sprangata.

Tornò nel tempio, si tenne alla larga da Sam. Occhi sgranati, che guizzavano a destra e a sinistra alia ricerca di una via di fuga.

Sam era seduto in prima fila con una scatola di ciambelle che il bambino non aveva trovato. Veri chazerei. Ciambelle di pasticceria ricoperte di cioccolato, una scatola ancora sigillata, nascosta dietro a vecchi libri di preghiere. Le scorte segrete di Kravitz. E chi voleva abbindolare? Accanto alle ciambelle c’era anche un vasetto di gefilte, polpettine di pesce in gelatina. Sam non credeva che avrebbero stimolato l’appetito del bambino.

«Qui», gli disse mostrandogli le ciambelle. «Prendile.»

Il bambino rimase immobile a fissarlo. Era sporco e sbrindellato e magro come un chiodo, con la faccia tutta piena di graffi, ma era lo stesso un bel bambino. Sugli undici, dodici anni. Che cosa faceva in giro un ragazzino di quell’età? C’erano molti fuggiaschi a Venice, ma soprattutto adolescenti, giovani ribelli, con il corpo intero pieno di spille e anelli, acconciature pazzesche, tatuaggi, aria torva. Quello era e sembrava solo un bambino denutrito e spaventato.

Senza dubbio goyische: guarda quel nasino all’insù, i capelli color biondo spento. Certi goyim picchiavano i loro figli, abusavano di loro, Dio solo sapeva che cos’altro. Forse quello era stato costretto a scappare. Era presumibile che accadesse anche agli ebrei, anche se a lui personalmente non risultava.

Ma che cosa sapeva lui di bambini?

Emil aveva un figlio, un avvocato, che viveva a Encino (con una macchina tedesca!), non parlava mai né ai genitori né allo zio.

«Qui», ripeté scuotendo la scatola. «Prendila.»

Niente. Il ragazzino non si fidava, pensava che fosse un tranello. Macchie di terra sui jeans e una T-shirt piena di buchi. Serrava i pugni, il fiero marmocchio.

Sam posò la scatola per terra e si alzò. «Va bene, ti apro la porta, così non sei costretto a passare dalla finestra. Ma se chiedi a me, ti conviene trovarti degli abiti puliti e mangiare del buon cibo ricco di vitamine.»

Si sfilò il portafogli dalla tasca e prese due banconote da venti. Un po’ troppo generoso con un piccolo sconosciuto, ma pazienza.

Posò i soldi di fianco alla scatola, andò in fondo al tempio e aprì la porta secondaria. Poi si trasferì in bagno per offrire al bambino la possibilità di un’uscita dignitosa. E perché la vescica lo stava facendo ammattire.

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