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Per come la vedeva Motor Moran, se aveva mai avuto per le mani una moto con le palle sotto, lui non se n’era accorto.

Aveva trent’anni e tolti i quattro mesi da custode in quel deposito di ferraglie a Salinas, non aveva mai avuto un vero lavoro. I mestieri svolti in prigione non contavano niente, e del resto lui non era mai stato in un penitenziario vero e proprio, solo gattabuie locali, guida in stato di ubriachezza, disturbo alla quiete pubblica, un mese qui, un mese lì.

La vita gli doveva qualcosa prima che tirasse le cuoia. Forse era arrivato il momento giusto.

Il tipo di moto che gli faceva provare un brivido nell’uccello costava parecchio. Come per esempio una Shovelhead del ’72, carburatori Zenith, cilindrata stratosferica, carrozzeria tutta tirata a lucido, cromature satinate. Oppure un bel chopper, Paughco Fishtails, valvole senza piombo, telaio verniciato similpolvere con abbondanza di scaglie. Te la stendi bene bene con una forcella extralong, o anche solo un paio di pedivelle avanzate se non vuoi che ti tiri troppo. Sella a bordo rinforzato con appoggio posteriore, perché soffriva di mal di schiena, specialmente di mattina.

Due posti. Poggiapiedi cromati per il passeggero, perché non si può non avere una pollastra seduta dietro, che ti si aggrappa come una cozza mentre tu la spari in una di quelle tirate da strapparti via la pelle dalla faccia.

Non Sharia, quella cervella fritta. Piuttosto una di quelle bambole che si vedevano in Easy Rider, di quelle che le moto le eccitano. E quando c’era da fermarsi da qualche parte a sgranchirsi le gambe, aveva da sfamarla con una bella razione di salsiccia a scoppio.

Ah, avesse avuto la grana, non si sarebbe fatto mancare niente.

La sua dueruote attuale era un’Abominevole Avanticristo, assemblata con vecchie parti di ricambio corrose, tenuta insieme con Bondo, risaldature e preghiere. Aveva persino infilato certi pezzi giapponesi dove non si vedeva. Fregio della HD, ma per tutti i pezzi di Harley che ci aveva messo, avrebbe potuto scriverci tranquillamente Motofrankenstein.

Almeno faceva casino. Le moto giapponesi non facevano mai casino.

Quando prese l’autobus per andare a Bakersfield, erano tre giorni di fila che quel vecchio catenaccio non voleva saperne di mettersi in moto. Non aveva impiegato molto a scoprire dove stava l’impiccio. Impicci: avviamento così marcio da averci un buco; bobina fusa; candele alla malora. Tanto per peggiorare le cose, i cavi del regolatore di tensione si sbriciolavano, più smangiati dei capelli di Sharia. Cento dollari minimo, finora, e con la trasmissione che sembrava sul punto di andare a farsi benedire, altri duecento.

Dei soldi che aveva preso a Sharia gli restavano sessanta dollari, la lasciò russare e cominciò la faticosa camminata fino alla stazione di Bolsa Chica.

Sapeva che con sessanta dollari non avrebbe ottenuto molto da Spanky, ma magari in officina avrebbe trovato qualche pezzo vecchio da trafugare, o avrebbe dato una mano a casa di Spanky: la sua tizia passava tutto il tempo a ristrutturare.

Qualsiasi cosa pur di salire di nuovo in sella.

Tutti quei messicani che lo guardavano, sull’autobus. Sempre la stessa domanda in tutti quegli occhi da cagnone, la domanda che gli avrebbe fatto qualsiasi ritardato: dov’è la tua moto?

Perché lui era uno che andava in moto, bastava guardarlo per capire che non era uno da autobus. Un veicolo con il tetto sopra la testa? Una vaccata.

Lui aveva tutto del motociclista, dannazione. Jeans così inzuppati di olio che stavano in piedi da soli, T-shirt nera XXXL con il teschio degli Angels (quando non c’erano Angels veri in giro). Borchie, stivali con puntale, pelle, pelle, pelle.

Una bella bandana legata intorno alla testa e all’inferno il casco!

L’autobus si mangiò dodici dei suoi sessanta dollari, arrivò tardi, fece un sacco di fermate a mollare messicani a vari frutteti. Mezza giornata solo per arrivare al Bandit Cycles e una volta a destinazione trovò il negozio pieno zeppo, guerrieri della domenica a lustrarsi gli occhi con i nuovi gioielli inventati da Spanky. Gente in giacca e cravatta che sbavava davanti a indecenti Rigid del ’95, un paio di Softtail, due o tre pezzi d’antiquariato che gli fecero raggricciare lo scroto. Guarda quella Knuckle/Pan, laccata amarena con una pollastra che sculetta in rosa.

Fighetti danarosi a occhieggiare la merce come se ci capissero qualcosa. E Spanky a mostrare questo e quel particolare, a leccare culi.

E se un fighetto avesse comprato una delle sue macchine, che cosa sarebbe diventato mai? Un fighetto in moto.

Motor girò per lo showroom, esaminò alcuni dei pezzi esposti, sfogliò l’ultimo numero di Rider… la Volpe del Mese era una messica, ma guarda quei capezzoloni color cioccolato!

Passò nel retrobottega, dove c’erano due meccanici al lavoro. Ne uscì subito, due spaccacazzi mai visti prima.

Altri messicani! Che gli aveva preso, a Spanky?

Finalmente i fighetti se ne andarono con i loro depliant e Spanky passò dietro il banco, si sciolse la coda di cavallo e liberò mezzo metro di capelli. Merda, se si era ingrigito. Niente polpa addosso, faccia da scheletro, denti marci, un teschio ambulante, quel coglione. E quando mai aveva cominciato a mettersi gli occhiali?

Motor si avvicinò. Spanky stringeva nella mano una bottiglia di Bud. Aveva il braccio destro ricoperto di tatuaggi dalla spalla fino alla punta delle dita. Non quello sinistro, però, lì c’era solo il nome della vecchia di Spanky, Tara, sul bicipite. Un giorno Motor gli aveva chiesto come mai e Spanky aveva risposto: «La sinistra mi serve per pulirmi il culo. Come si fa in India».

Che stramberia.

«Ehi, salve», lo salutò Motor.

Spanky non alzò gli occhi. Scolò mezza Bud, prese un pieghevole con la pubblicità di un raduno a Chillicothe, finse di leggere. Motor sbirciò l’avviso sul retro. Era per la Festa del Lavoro, su fin nell’Ohio. Gesù, quanto gli sarebbe piaciuto andarci, transitare in formazione lungo il penitenziario, con i fratelli dietro il reticolato ad alzare il pugno in segno di solidarietà.

Spanky continuava a leggere come se lui non ci fosse.

«Chillicothe», disse Motor. «Solo Sturgis potrebbe batterla, no? O magari il Memorial Day a Laconia.»

Spanky continuò a ignorarlo. Motor tossì e finalmente il bastardo alzò gli occhi.

«Ehi, allora?» lo apostrofò.

Spanky aspettò qualche secondo prima di mormorare. «Buell.»

Usando il nome che Motor detestava.

«Ehi, Spank.» Motor alzò la mano per un cinque. Spanky non si mosse. Poi s’infilò un anello nella barba, la trasformò in una coda di cavallo grigia. Finì la birra e si buttò la bottiglia alle spalle dove c’era una pila di rifiuti.

«Niente credito, Buell. Mi sei ancora in debito per quelle ruote a razze.»

«Ma ti ho pagato.»

«Sì, come no, impiegandoci due anni. Ruote come quelle, le avrei piazzate in due giorni. Tu me le hai fatte sudare due anni.»

Ed erano tutte balle, perché le ruote erano di seconda mano, smontate da una macchina incidentata e restaurate. Una in particolare era ridotta a una merda perché aveva il cerchione tutto smangiato dalle mitragliate di ghiaia.

«Spank…»

«Scordatelo, Buell.»

«Senti, solo pochi pezzi da poco. E ho la grana.»

«Quanta grana?»

Motor gli mostrò una banconota da venti e una da dieci. Spanky le guardò come se fossero sterco di cane.

«Dai, sai che non ti frego.»

Spanky sospirò e il petto gli si risucchiò all’indentro come le guance di una che fa un pompino. Nemmeno un pelo sul torace o sulle labbra, ma quella barba grigia che gli cresceva su fino agli occhi era più folta di quella di Babbo Natale.

«È un anticipo», insisté Motor.

«Sì, sicuro. Una cosa sia chiara, pero, niente pezzi nuovi. Se ti lascio prendere qualcosa, è solo da quelli di seconda mano.»

«Mi sta bene», ribatté Motor. «Vado a frugare.»

«Frugare? Pensi di poter frugare per trenta dollari?»

«Trenta d’anticipo, dai! La settimana prossima alla mia tizia le arriva l’assegno.» Balle, Sharia non avrebbe incassato niente fino alla fine del mese. «Appena incassato l’assegno, avrai i tuoi soldi. Te li porto io di persona.»

«Di persona?» Spanky sorrise e la barba trattenuta dall’anello dondolò come un sacco di fuffa. «Perché non me li accrediti via banca, Buell? Tutti adesso accreditano via banca. Hai mai fatto accrediti via banca, Buell?»

«Sì, certo.» Balle.

«Allora avrai il tuo conto in banca per farmi l’accredito no? Noi ce l’abbiamo. Abbiamo anche un computer.» Spanky batté la mano sul registratore di cassa. «Oggi tutto è computerizzato, Buell. Nel retro abbiamo anche un altro computer per ordinare i pezzi. E anche l’E-mail. Sai che cos’è l’E-mail, Buell?»

Motor non rispose. Che coglione. Si accorse in quel momento che Spanky aveva un’aria da… ebreo. Di un rabbino. Schiaffagli un cappello in testa, rispediscilo a Israele.

«E-mail, Buell? Noi usiamo il computer per mandare messaggi, telefonate, non costa niente. Ti guardi anche delle belle foto porno sul computer, Buell. Casalinghe, anal, oral, di tutto. Oppure puoi usare l’E-mail per scrivere ‘vaffanculo’ a qualche coglione. Tutto quello che vuoi. Quello che ti sto dicendo, Buell, è che qua attorno c’è un mondo nuovo, bisogna stare dietro ai tempi. Una volta uno poteva starsene a culo comodo, rimediarsi una moto, vivere da libero. Oggi devi avere qualcosa di più che i soldi per la benzina.»

Spanky lo contemplò con un misto di commiserazione e disprezzo. Dove voleva andare a parare?

«Oggi occorre produrre qualcosa, Buell. Beni e servizi. Come per esempio fabbricare una moto o metterla a punto. Da me vengono dottori, avvocati, gente che ha già la Mercedes, ma va matta per le moto. Gente che produce.»

«Gli avvocati producono più merda di un orso con la diarrea», sentenziò Motor.

Spanky non rise. Nemmeno un sorriso. «Giusto, Buell. Per questo loro hanno da pagarmi per quello che comperano e tu stai cercando di rifilarmi trenta dollari.»

«Ehi, dico…»

«Già, già, vuoi andare a frugare nel mucchio dei pezzi usati, certo, ma questa è l’ultima volta. E prima fai un salto al Bell e mi prendi qualcosa da mangiare.» Spanky si grattò l’interno della narice sinistra. «Tre taco. Quelli soffici. E un burrito al manzo, guacamole extra, salsa extra. E un’enchilada al formaggio. E una coca jumbo. Tu mi offri il pranzo e forse io ti lascio frugare. Almeno avrai prodotto qualcosa. Niente beni, ma un servizio sì. È tutta questione di economia, Buell.»


Il Taco Bell era a tre isolati e a ogni passo i piedi gli facevano più male, tutto quel peso da trasportare, gli stivali logori a rendergliela più dura. La tela sudicia dei jeans gli aveva irritato la pelle delle cosce. Quando ci arrivò, sudava per lo sforzo. Quando il piccolo mangiafagioli gli chiese: «Sì, signore?» lo incenerì con un’occhiataccia e gli spense il sorriso sulle labbra. Poi ordinò quello che Spanky gli aveva chiesto.

Stava per andarsene quando lo vide. Era abbandonato su uno dei tavolini.

Un giornale di L.A. Lui non leggeva giornali, chi se ne fregava. Ma quello attirò la sua attenzione per via del disegno.

Cazzo se non somigliava al sorcetto di Sharia.

Andò a prenderlo. Gli ci volle parecchio per finire l’articolo e dovette leggerlo due volte per essere sicuro. Aveva sempre fatto fatica nella lettura, non tutte le parole avevano un senso, certe lettere erano alla rovescia. Il suo vecchio diceva che era un ritardato, e tu senti chi parla, testa di cazzo di un portinaio disoccupato, schiattato a quarantacinque anni per essersi fottuto il fegato. Non che la mamma scherzasse meno di lui in fatto di alzare il gomito, ma almeno lei non gli rompeva le palle. Scarsa a leggere pure sua madre.

Finalmente arrivò in fondo. Possibile che fosse vero? Testimone di un omicidio? A Hollywood?

Studiò il disegno. Sì, quello era proprio il muso del sorcio.

Doveva essere il sorcio. Se l’era filata… quando? Quattro mesi prima?

E i bambini scappavano sempre a Hollywood. Ci era finito anche lui, quando Fegato Spappolato lo aveva preso a calci in culo perché era stato bocciato per la terza volta. Così finalmente gli aveva detto, fottiti, io me ne vado.

Quella volta aveva preso il Greyhound, con i soldi che aveva rubato dai jeans di Fegato Spappolato. Aveva avuto paura quando ci era arrivato, il posto era enorme, ma aveva camminato per le strade impettito, tanto per far capire a tutti che non avrebbe mangiato merda da nessuno.

Già sviluppato, dimostrava più dell’età che aveva, aveva avuto pochi problemi per le vie di Hollywood, dove aveva spillato quattrini ai ragazzi più piccoli di lui, aveva scippato nonnine, aveva prelevato una nipponica dal parcheggio del Roosevelt Hotel, l’aveva smontata, ne aveva venduto i pezzi, si era procurato un vecchio HD Shovelnose da uno dei compagni che andavano a bere al Cave.

La più bella dueruote che avesse mai posseduto. E qualcuno gliel’aveva fregata da sotto il culo.

Dormiva in una casa abbandonata di… dov’era mai? Argyle. Sì, Argyle, un grande appartamento vuoto pieno di tossici, un posto che puzzava di vomito e merda e non ci aveva mai dormito bene, sempre con gli occhi aperti, caso mai qualcuno cercasse di fotterlo. La sua corporatura era un aiuto; lo era anche il fatto che pestava a sangue tutti quelli più piccoli che gli finivano tra i piedi. E quel negro che aveva accoltellato perché lo aveva guardato storto… Quella storia era girata, si era fatto una reputazione.

Il giubbotto nero di pelle che aveva comperato a un raduno di Van Nuys l’aveva introdotto meglio nel giro dei motociclisti del Cave. Uno di loro gli aveva venduto documenti contraffatti così poteva entrare anche lui a bere. Stava diventando culo e camicia con il gruppo, cominciava a pensare che sarebbe riuscito a entrare in qualche club, poi tutt’a un tratto avevano smesso di trattarlo da amico, non aveva mai capito bene perché.

Dunque sapeva bene che Hollywood era un posto dove si andava a finire quando si scappava di casa.

Anche il sorcio? Perché no? Quella caccola era troppo piccola per farsi rispettare, quindi probabilmente si faceva sbattere, lo prendeva in quel deretano smunto, probabilmente aveva l’AIDS.

Quattro mesi. Ogni tanto Sharia ci piangeva ancora e lui doveva gridarle di chiudere quei rubinetti del cazzo che aveva al posto degli occhi. Piangeva ma non faceva un fico secco per trovare il suo sorcio. Voleva dargli a intendere che ci teneva. Stupida troia. Una volta si era alzata a sedere nel letto in piena notte urlando non si capiva bene cosa dell’AIDS, e lui a scuoterla, a chiederle che cazzo le era saltato in mente. Lei lo aveva guardato e gli aveva detto, niente, cowboy. Ho fatto un brutto sogno.

Era ora di cambiare aria, prendersi una pollastra di quelle giuste.

Venticinque bigliettoni. Ecco la strada giusta.

E aveva già un vantaggio sul resto del branco, lui conosceva Hollywood, conosceva il sorcio.

Avesse anche dovuto riempire la sua moto di sangue, ci sarebbe arrivato.

Era tornato al trailer quando era ormai buio.

Sharia era in cucina ad aprire una birra. «Ehi, cowboy, dove sei stato?»

Non le aveva dato retta, aveva trovato una torcia, era uscito, aveva fissato la torcia con il nastro adesivo al manubrio e aveva cominciato a montare le parti che aveva trovato da Spanky. Le candele erano nuove; le aveva fregate quando Spanky guardava dall’altra parte. Anche l’ultimo numero di Rider. La Volpe del Mese era Jody di El Paso, Texas. Quei capezzoloni neri. Diceva che le piaceva andare in moto senza mutandine.

Stava procedendo bene quando si aprì la porta del trailer. Era Sharia, T-shirt e calzoncini, niente scarpe. Mani sui fianchi, uno di quei sorrisi alla baciami.

«Torna dentro e preparami qualcosa da mangiare», le disse.

«Mi dai un bacio?»

«Fammi mangiare. Muoviti.»

Lei assunse la solita espressione da bambina imbronciata. «Che cosa vuoi mangiare?»

«Quello che voglio, non posso averlo. Scaldami due di quei vassoi pronti. Maccheroni al formaggio, bistecca… dai, datti da fare!»

Lei ubbidì. Almeno una cosa che quella troia sapeva fare bene.


Alle undici era riuscito a mettere in moto, aveva la pancia piena, si era scolato tre birre.

Venticinquemila! Come uno di quei cacciatori di taglie.

Sharia aveva atteso che finisse. A quel punto si mise a fare moine. Lui le prese la testa tra le mani e la fece fuori in pochi momenti.

Svuotato, patta richiusa, pronto a salpare!

Lei era in bagno a lavarsi la bocca mentre lui frugava nella sua borsetta, trovava altri cinque dollari in spiccioli.

Era alla porta quando lei lo inseguì. «Ehi», lo chiamò.

La ignorò e cercò le chiavi in tasca.

«Dove vai, cowboy?»

«Fuori.»

«Di nuovo?» Quel tono di voce che odiava, come quando la trasmissione sta per saltare.

Lo prese per un braccio. «Dai, cowboy, sei appena tornato.»

«E adesso me ne vado.»

«Ma io non voglio restare sola.»

«Guarda la TV.»

«Non ho voglia di guardare la TV, ho voglia di compagnia. E poi…» Sbattendo le ciglia, prendendogli la mano per posarsela su una tetta. «Ho fatto contento te. E io?»

Toccarla, guardarla, ascoltarla… gli venne voglia di vomitare. Era sempre così. Prima glielo faceva venire duro, poi, quando aveva finito con lei, gli sembrava un pezzo di carne rancida.

Se la scrollò di dosso. Lei lo afferrò di nuovo, riprese a piagnucolare.

«Se ne hai tanto bisogno», le disse, «vai a scoparti uno di quegli appestati.»

«Cosa? Chi sarebbero gli appestati? Gente con i microbi?»

Quella domanda confuse Motor e quando era confuso s’infuriava. Le mollò un manrovescio e lei cadde contro un mobile della cucina e piombò a terra. Smise di muoversi, smise di assillarlo.

Aprì la porta, uscì nella notte tiepida, la richiuse con un calcio.

Pochi secondi dopo percorreva il vialetto d’accesso al parcheggio dei rimorchi. Quando arrivò alla statale, si ricordò di accendere il fanale.

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