Due ore che cammino. Non inciampo più come prima.
Tutte quelle coltellate.
PLYR 1. C’è un bar sul boulevard, il Players, è il ritrovo dei magnaccia. Si chiamano così perché mangiano a sbafo?
Quello che le ha fatto mi ricorda una cosa che ho visto a Watson in uno dei campi che ci sono dietro gli aranceti.
Si sono incrociati due cani. Uno era bianco con macchie marrone, tutto muscoli, una specie di pitbull ma non proprio. L’altro era un bastardo, nero e grosso, e camminava male. Il cane bianco sembrava tranquillo, contento della vita, con un muso quasi sorridente. Forse è per questo che il cane nero non ha avuto paura. Poi il cane bianco si è girato di scatto, senza abbaiare, è balzato su quello nero, gli ha afferrato il collo con le zanne, gliel’ha rigirato un paio di volte e l’ha ammazzato. Così, in un lampo. Il cane bianco non ha mangiato quello nero, non ha leccato il sangue o niente del genere, ha scalciato un po’ di terra con le zampe posteriori ed è andato via, come uno che ha fatto il suo lavoro.
Sapeva quanto era forte.
Mi sono sbagliato. Non sono ancora vicino. Sento i piedi come pietre e comincio a sentirmi stupido per aver deciso di vivere nel parco. Mi devo ripetere che non è così, che è una furbata.
Dove altro posso andare, magari a The Melodie Anne? È una casa sulla Selma, vicino al boulevard, mezza distrutta da un incendio, con le finestre sbarrate. Ci finiscono un sacco di ragazzi e di notte ci portano gli adulti. Qualche volta li vedi che gli fanno un pompino anche fuori, nel vicolo, ragazzi e ragazze.
Io piuttosto mi ammazzo. Il suicidio è peccato, ma lo è anche vivere una vita sbagliata.
Controllo il Casio: 4.04. Devo essere vicino. Posso tentare con tutti gli elenchi che voglio, ma ho sempre la testa piena di immagini terribili. Uomini che fanno del male alle donne, cani che ammazzano cani, aerei che scoppiano, bambini rapiti dalle loro case, spari da automobili in corsa, sangue dappertutto.
Penso a mamma ma vedo invece Moron e ora mi viene in mente che le dava sempre della puttana e lei zitta, a farsi chiamare così in silenzio.
Nei giorni storti la picchiava. Io chiudevo gli occhi, serravo i denti, cercavo di proiettarmi da qualche altra parte. Per molto tempo non ho capito perché lo aveva preso in casa. Poi mi è venuta l’idea che non si considera un gran che perché non è mai andata a scuola e che Moron è quello che si merita.
Lo ha conosciuto al Sunnyside, che è dove trova tutti gli sbandati che si porta a casa. Non ci lavorava più, ma ci andava lo stesso a bere, a guardare la TV e a scherzare con quelli che giocano al biliardo.
Gli altri sbandati non sono mai rimasti per molto tempo e mi hanno sempre ignorato. Appena arrivato, Moron ha appestato il trailer del suo odore personale e di quello di grasso per motociclette. Lui e mamma si sono fatti. Io ero sul divano letto, sentivo l’odore delle canne che accendevano, li ho sentiti ridere e poi il letto che cigolava. Mi sono messo le dita nelle orecchie e mi sono infilato tutto quanto sotto la coperta.
La mattina dopo è uscito dalla camera da letto nudo, con le mutande in mano, tutto pieghe e rotoli di ciccia tatuata. Io ho fatto finta di dormire ancora. Ha aperto la porta, ha fatto un grugnito, si è infilato le mutande ed è uscito a pisciare. Quando ha finito, ha detto: «Sììììì!» si è schiarito la gola e ha sputato.
Tornando in camera ha inciampato e mi ha piantato un ginocchio nella schiena. È stato come sentirsi schiacciare da un elefante, non respiravo più. Poi è tornato fuori, è andato in cucina, ha preso una scatola di fiocchi d’avena e se n’è messo in bocca una manciata spargendoli dappertutto.
Io ho fatto finta di svegliarmi. Lui ha detto: «Oh cazzo, un sorcio. Ehi, Sharia, non mi avevi detto di avere uno di quelli».
Mamma ha riso nell’altra stanza.
«Non è che si è parlato molto, giusto, cowboy?»
Allora ha riso anche Moron, poi mi ha allungato la mano per un cinque. Aveva i contorni delle unghie neri e dita grosse come hotdog e dello stesso colore.
«Motor Moran, fratello. Tu chi sei?» Per un pezzo d’uomo come lui aveva la voce un po’ alta.
«Billy.»
«Billy cosa?»
«Billy Straight.»
«Ah, come lei. Dunque non hai un papà, sei un piccolo incidente fottuto, eh?» Io ho abbassato la mano ma lui me l’ha afferrata, l’ha stretta forte e mi ha fatto male, guardandomi per vedere se lo lasciavo capire. Io ho fatto finta di niente.
«Questa è la tua colazione, fratello?»
«Più o meno.»
«Che sfiga.» Questo lo ha fatto ridere di gusto.
È arrivata la mamma e si è messa a sghignazzare con lui. Ma nei suoi occhi c’era quell’espressione triste che le avevo visto tante altre volte.
Mi spiace, tesoro, che cosa posso fare?
Nemmeno io proteggo lei, perciò credo che siamo pari.
Lui mi ha tirato un pugno nel braccio. «Motor Moran, fratellino. Non fartela fuori.» Mi ha lanciato la scatola, è andato al frigo e ha preso birra e salsa.
«Hai delle patatine, donna?»
«Sì, cowboy.»
«Allora alza il culo e preparami qualcosa da mettere sotto i denti.»
«Subito, cowboy.»
Lei chiama cowboy tutti gli sbandati che si porta a casa.
Moron credeva che fosse solo per lui. «In sella, baby, dai che si galoppa di nuovo!»
Motor Moron. Il suo vero nome è Buell Erville Moran, dunque si capisce perché voleva un soprannome, anche se stupido. L’ho letto sulla sua patente, che era scaduta e piena di bugie. Per esempio la statura, un metro e novantatré, quand’era alto almeno mezza spanna in meno. E i cento chili, quando ne peserà almeno centocinquanta. Nella fotografia aveva una grande barba rossa. Quando la mamma lo ha portato a casa se l’era tagliata, tenendo due basettone gigadontiche, sporgenti come cespugli, stupide da far paura.
Si veste sempre allo stesso modo: jeans bisunti, puzzolenti T-shirt nere della Harley e stivali. Vuole farsi passare come un Hells Angel o qualche importante fuorilegge che gira in moto, ma non aveva una banda e la sua moto era un vecchio catenaccio arrugginito, che non funzionava quasi mai. Lui ci smanettava accanto al trailer per tutto il giorno, si ubriacava, guardava i talk show e mangiava, mangiava, mangiava.
E spendeva il sussidio e gli assegni di invalidità. Il sussidio era fondamentalmente mio. Sussidi per famiglie con figli dipendenti. Soldi miei.
Almeno ora sono più indipendente.
Mamma è cambiata quando io ho compiuto cinque anni. Non ha studiato, ma una volta era più felice. Le interessava mettersi bene, usava il ferro per i capelli, si truccava e si cambiava. Adesso solo T-shirt e short e anche se non si può dire che sia grassa, è un po’ molle e la sua pelle è scolorita e ruvida.
Una volta lavorava al Sunnyside per tutta la settimana e beveva e fumava solo il sabato e la domenica. Non è che voglio criticarla, è stata dura per lei, a quattordici anni già andava a raccogliere nei campi e ha avuto me che ne aveva sedici. Ora ne ha ventotto e ha perso i primi denti perché non ha i soldi per curarli.
Non ha potuto andare a scuola perché anche i suoi genitori raccoglievano frutta, giravano di qua e di là andando con i raccolti, erano alcolizzati e non credevano importante studiare. Mamma riesce appena a leggere e scrivere e non è forte in grammatica, ma io non le ho mai detto niente per questo, a me in fondo non importa.
Ha avuto me nove mesi dopo che i suoi sono morti in un incidente d’auto. Suo padre era ubriaco, tornava a Watson dopo essere stato al cinema a Bolsa Chica, è uscito dalla Route 5 ed è finito diritto contro un palo della luce.
Io e mamma passavamo spesso in autobus proprio per di là. Tutte le volte lei diceva: «Eccolo, quel palo maledetto», e prendeva a strofinarsi gli occhi.
Lei non è morta perché invece di andare al cinema con i suoi era a far festa con degli altri braccianti.
È una storia che mi raccontava in continuazione, specialmente quand’era ubriaca o fatta. Poi ha cominciato ad aggiungerci dei pezzi: la festa era in un ristorante elegante, con gente importante del Sindacato dei Lavoratori Agricoli. Poi la festa è scomparsa ed è diventata un’uscita a due, lei e un sindacalista pieno di soldi e lei era tutta in tiro, «da sballo». Poi si è lanciata, il sindacalista ricco è diventato bello e intelligente, un avvocato che era un genio.
Una sera che era ubriaca fradicia ha fatto questa grande confessione: il riccone era mio padre.
La sua è come la storia di Cenerentola, solo che lei non è finita a vivere a palazzo.
Avere un padre ricco, bello e intelligente mi farebbe comodo, ma so che sono balle. Se aveva tutti quei soldi, perché lei non ha cercato di prendersene un po’?
Quando era in quello stato, qualche volta tirava fuori vecchie fotografie e mi mostrava quand’era magra e carina e aveva tanti capelli neri che le scendevano giù, fino al sedere.
Non aveva nessuna foto di quel bel riccone. Sai che sorpresa.
Quando ha raccontato la storia a Moron, lui ha detto: «Piantala con questa stronzata, Sharia, ti sei scopata un milione di teste di cazzo e non te ne ricordi uno che è uno».
Mamma non ha risposto e la faccia di Moron si è scurita e si è girato a guardare me e per un momento ho pensato che voleva darmele. Invece si e messo a ridere. «Come pretendi di sapere chi ha prodotto questa caccola?» ha chiesto.
Mamma ha sorriso e si è ritorta una ciocca intorno al dito. «Lo so, Buell. Sono cose che una donna sa.»
Lì è stato quando le ha mollato un manrovescio. Mamma è caduta contro il frigo e la testa le è schizzata all’indietro come per saltar via.
Io ero seduto al tavolo a mangiare quel poco che mi aveva lasciato di una maxi scatola di Hormel Chili e tutt’a un tratto mi sono sentito bruciare dentro di pr.ura e furia e ho cercato con gli occhi qualcosa da prendere, ma i coltelli erano in fondo dall’altra parte, troppo lontani, e la sua pistola era sotto il letto con lui in mezzo.
Mamma si è messa a sedere e ha cominciato a piangere.
«Non mi spaccare il cazzo», ha detto lui. «Piantala di frignare.» Ha levato la mano di nuovo. Questa volta io mi sono alzato e lui mi ha visto e i suoi occhi sono diventati piccoli piccoli. È diventato rosso come ketchup, ha cominciato a respirare forte, si è mosso verso di me. Forse mamma stava cercando di aiutarmi o forse stava solo aiutando se stessa ma all’improvviso se lo è preso tra le braccia. «Sì, hai ragione, baby, è una stronzata», gli ha detto. «Una vera stronzata, cosa vuoi che so io, scusa, non ti romperò più le scatole con questa storia, cowboy.»
Lui ha fatto per cacciarla via, poi ha cambiato idea. «Devi piantarla con quelle cazzate.»
«Te l’ho già promesso», ha detto mamma. «Vieni, baby, andiamo in città a divertirci un po’.»
Lui non ha risposto. Solo dopo un po’ ha detto: «Che cazzo». Guardando me, le ha leccato la guancia e le ha infilato la mano sotto la maglietta.
Ha cominciato a muoverla piano piano, in tondo.
«Festeggiamo qui, baby», ha detto, cominciando a spogliarla.
Io sono scappato dal trailer e l’ho sentito ridere. «Sembra che il marmocchio del riccone si è attizzato», ha detto.
Ha cominciato con altre strizzate di mano, sgambetti, pizzicotti al braccio. Quando ha visto che la faceva franca, si è messo a mollarmi ceffoni per motivi stupidi, come quando non gli portavo un uovo sodo abbastanza in fretta. Mi rintronava la testa e per ore non riuscivo a sentire bene.
Il momento peggiore della giornata era quando tornavo a casa da scuola. Lo trovavo fuori a lavorare alla sua moto. «Ehi tu, schizzo di riccone! Vieni qui!»
C’era una sola porta per entrare nel trailer e lui ci era davanti, così dovevo ubbidire.
Certe volte mi strapazzava, certe volte no ed era quasi peggio, perché allora stavo sulle spine aspettando che cominciasse.
Marmocchio di riccone, stupida caccola spocchiosa che crede di essere più furbo di tutti.
Poi ha cominciato con gli attrezzi. Mi puntava uno scalpello sotto il mento, mi prendeva il pollice in una chiave inglese e stringeva fino all’osso guardandomi negli occhi per vedere che cosa facevo.
Io ce la mettevo tutta a non muovere né gli occhi né altro. La sensazione è come quando ti chiudi la mano in un cassetto, ma almeno lì il dolore passa subito, mentre questo è una botta via l’altra. M’immaginavo le ossa che si crepavano e spaccavano e non guarivano più.
Passare la vita con le mani rotte e tutti che mi chiamavano Monco.
Poi c’è stato il cacciavite. Mi faceva il solletico all’orecchio e fingeva di cacciarmelo dentro con un colpo secco, rideva e diceva: «Merda, l’ho mancato».
Qualche giorno dopo mi ha appoggiato sul collo la lama del suo seghetto e ho sentito i denti, come di un animale che mi morsicava.
Dopo quella volta non ho più dormito bene, tutte le notti mi svegliavo e risvegliavo e la mattina avevo la faccia tutta indolenzita per aver stretto forte i denti.
Perché non andavo a rubargli la pistola da sotto il letto e non gli sparavo?
Un po’ perché avevo paura di svegliarlo, così poi la prendeva prima lui. E anche se gli avessi sparato, chi poteva credere che avevo una buona ragione? Sarei finito in galera, finito per sempre, anche una volta uscito sarei stato un ex detenuto, senza diritto di voto.
Ho cominciato a pensare di scappare. La cosa che ha preso la decisione per conto mio è successa una domenica. Le domeniche erano le peggiori perché era in casa tutto il giorno a bere e a fumare erba e a impasticcarsi e a guardare video di Rambo e dopo un po’ si sentiva un Rambo anche lui.
Mamma era andata a far compere e io cercavo di leggere.
«Vieni qui, caccola», ha detto e quando ci sono andato, lui ha riso e ha finito fuori un tronchesino, poi mi ha calato i jeans e gli slip e mi ha preso il pisello tra le lame. Pisello e tutto il resto.
Billy Senza Balle.
Quasi me la sono fatta addosso ma mi sono costretto a tenerla perché se lo avessi bagnato di sicuro me lo tagliava via.
«Piccolino l’attrezzo del marmocchio del riccone, eh?»
Io ero lì fermo, a cercare di non sentire niente, a sognare di essere da qualche altra parte. Elenchi, elenchi, non funzionava più niente.
E lui: «Zacchete e via a cantare nel coro delle voci del cazzo del papa».
Si è passato la lingua sulle labbra. Poi finalmente mi ha lasciato andare.
Due giorni dopo, quand’erano tutti e due al Sunnyside, ho battuto il trailer a caccia di soldi. All’inizio ho trovato solo ottanta centesimi in monetine sotto i cuscini del divano e mi stavo scoraggiando e mi chiedevo se avrei potuto andarmene senza soldi. Poi ho trovato il Miracolo del Bagno. Denaro che mamma teneva nascosto in una scatola di Tampax sotto il lavandino. Credo che non si sia mai fidata fino in fondo di Moron, così ha pensato che là sotto non avrebbe mai guardato. Forse si sentiva in trappola anche lei, voleva scappare anche lei, un giorno o l’altro. Se ho mandato in fumo i suoi piani, mi dispiace, ma riceve ancora il mio sussidio ed erano mie le palle fra le lame di quel tronchesino. Se fossi rimasto ancora sono sicuro che mi avrebbe ammazzato. Allora lei ci sarebbe stata malissimo e probabilmente sarebbe finita in qualche guaio per non aver badato come doveva a suo figlio o qualcosa del genere.
Dunque andandomene le facevo un favore.
Nella scatola di Tampax ho trovato centoventisei dollari.
Li ho infilati in due sacchetti di plastica, ho messo i sacchetti di plastica in una busta di carta stretta con quattro elastici e mi sono infilato la busta negli slip. Non potevo portar via libri o troppi vestiti, così ho messo semplicemente le mie cose più comode in un altro sacchetto di plastica, mi sono allacciato il Casio al polso e sono uscito nella notte.
Non ci sono lampioni al parcheggio dei trailer, solo le luci dentro i rimorchi e a quell’ora erano già quasi tutti a dormire, perciò c’era un bel buio generale. Non è un vero parcheggio, è piuttosto un grande spiazzo di terra vicino a un vecchio frutteto, di aranci storti e piegati dal vento, che non danno più frutti. Su un lato c’è una lunga pista curva che porta alla statale.
Ho camminato lungo la statale tutta notte, tenendomi nell’erba, abbastanza lontano da non essere visto dalle macchine e i camion. Erano soprattutto camion, quelli enormi, che passavano sfrecciando con un rumore da temporale. Devo aver fatto a piedi dodici miglia, poiché così c’era scritto a Bolsa Chica sul cartello che dava la distanza da Watson. Ma i piedi non mi facevano troppo male e mi sentivo libero.
La stazione era chiusa perché il primo autobus per Los Angeles partiva alle sei. Ho aspettato finché un vecchio messicano si è messo allo sportello e ha preso quaranta dei miei Tampax-dollari senza nemmeno alzare gli occhi. Alla stazione ho comperato un panino dolce e del latte e ho preso un Mad Magazine dall’espositore. Sono salito per primo sull’autobus e mi sono seduto in ultima fila.
Tutti gli altri erano messicani, soprattutto operai e qualche donna, una incinta, che si muoveva un sacco sulla sua poltrona. L’autobus era vecchio, ci faceva un gran caldo, però era bello pulito.
A guidare c’era un vecchio dalla pelle bianca con la faccia tutta schiacciata e un cappello che gli andava troppo grande. Masticava gomma e sputava dal finestrino. È partito adagio, ma una volta che ci si è messo, ha preso una bella andatura e alcuni dei messicani hanno tirato fuori da mangiare.
Siamo passati accanto a delle rivendite di auto usate nella periferia di Bolsa Chica, con tutti quei parabrezza che riflettevano luce bianca come specchi, poi campi di fragole coperti con strisce di plastica. Quando ci passavo con mamma, lei diceva sempre: «Strawberry fields, proprio come la canzone». Mi è venuto da pensare a lei, mi sono ordinato di smetterla. Dopo i campi di fragole niente altro che strada e montagne.
Un po’ più avanti siamo passati dal posto dove i genitori di mamma erano finiti fuori strada. Io l’ho guardato, l’ho visto scomparire nel finestrino posteriore. Poi mi sono addormentato.