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Esco dal parco e prendo per Los Feliz, restando il più possibile lontano dalla luce. Qui non c’è nessuno che cammina, solo macchine che sfrecciano. Finisce Los Feliz e inizia la Western e ora cominciano i tossici e le puttane. Svolto a destra in Franklin perché è più scuro, ci sono solo case. Non voglio restare sul boulevard.

Poca gente in giro questa sera e quelli che incontro non si accorgono di me. Poi vedo un paio di messicani nascosti dietro un angolo, all’ombra di un vecchio palazzo di mattoni. Probabile che stiano trafficando droga. Attraverso la strada e loro mi guardano, ma non dicono niente. Un isolato più avanti da una casa sbuca una puttana pelle e ossa con spini bianchi per capelli e maglietta e short blu elettrico con una borsetta minuscola in mano. Mi vede e sbatte gli occhi e dice: «Ehi, tu», con la voce da ubriaca e mi chiama con il dito. È bassa, molto giovane, non può avere molti anni più di me. «Ciuccio e ciccia, trenta», mi propone e quando io continuo per la mia strada, mi dice: «Vai a farti fottere, frocio».

Per qualche isolato non vedo nessuno, poi un’altra puttana, più vecchia, più grassa, che non bada a me, fuma le sue sigarette e sta attenta alle macchine. Poi dall’ombra escono tre tizi neri, alti, con il berretto da baseball e i calzoni larghi. Mi vedono, si guardano. Li sento dire qualcosa e attraverso di nuovo la strada, cerco di sembrare tranquillo. Sento ridere e dei passi e mi giro e vedo che uno mi sta inseguendo, mi ha quasi raggiunto. Accelero, mi metto a correre e corre anche lui. Lui ha le gambe lunghe e ha alzato la mano come per afferrarmi. Io attraverso di corsa la strada e sta arrivando una macchina e deve scartare per non prendermi. Il guidatore suona il clacson e grida: «Testa di cazzo!» e io continuo a correre, ma il nero ha smesso.

Mi sembra di sentire qualcuno che ride. Probabilmente per lui è un gioco. Se avessi una pistola…

Cammino per molto tempo. A Cahuenga c’è più luce e l’ingresso dell’Hollywood Bowl, con una lunga curva di strada che ci arriva. Io non vado lassù, assomiglia troppo al parco. Non voglio più avere niente a che fare con i parchi.

E indovina che cosa mi capita subito dopo: un altro parco, Wattles Park, che nome strambo. Non l’avevo mai visto, non mi sono mai spinto fin qui. Non è un posto molto invitante, c’è un recinto alto tutt’attorno e cancelli con grosse catene e lucchetti e un cartello che dice che è di proprietà della città e che di notte è chiuso, statevene fuori. Attraverso il recinto vedo solo piante. Mi sembra disordinato. Probabilmente è pieno di gente strana.

Poi finisce Franklin, e c’è di nuovo l’Hollywood Boulevard, non lo posso evitare; come se mi corresse dietro, questa esplosione di fracasso e luci, distributori, macchine, autobus, fast food, e peggio di tutto la gente, ci sono certi che mi guardano come se fossi un pasto. Attraverso La Brea, sono di nuovo in una zona tranquilla, tutte case, anche abbastanza eleganti. Io non ho mai pensato al boulevard se non nel senso di negozi e cinema e balordi, invece guarda qui, c’è anche gente che vive in posti proprio belli.

Forse dovevo cominciare a viaggiare prima.

Il taglio al braccio si è richiuso e non fa molto male. Quelli sulla faccia mi prudono.

Respiro bene, anche se il petto mi fa ancora male. Ho fame, ma con tre dollari non posso comperarmi un gran che e cerco un cassonetto dove pescare. Niente. Nemmeno un bidone.

Cammino ancora un po’ e mi infilo in una via davvero silenziosa. Tutte case, una bella via buia. Ma niente bidoni nemmeno qui, niente vicoli. Le macchine sono parcheggiate una attaccata all’altra e là in fondo vedo altra luce e c’è di nuovo rumore, un altro viale. Mi fermo e mi guardo intorno. Certe case sono messe proprio bene, altre sono un po’ incasinate, con le macchine parcheggiate sul prato.

Poi arrivo a una casa dove non ci sono macchine, né nel vialetto, né sul prato. Tutta buia. Ha l’aria di essere vecchia, fabbricata con un tipo di legno scuro e con un tetto a spiovere che copre una veranda davvero spaziosa. Niente steccato, nemmeno dall’altra parte del vialetto. Ma l’erba è tagliata, dunque qualcuno ci vive, e magari tiene i bidoni dietro casa.

Il vialetto è di cemento con una striscia d’erba che cresce nel mezzo e non arrivo a vedere che cosa c’è in fondo. Mi guardo in giro per essere sicuro di non essere visto e m’incammino adagio. Passando davanti alla veranda, vedo un mucchio di posta davanti alla porta. Tutte le finestre sono nere. La gente che ci abita dev’essere via da un pezzo.

Nessun cartello di ATTENTI AL CANE, nessun cane che abbaia da dentro la casa.

Vado avanti e finalmente capisco che cosa c’è in fondo al vialetto. Un box con il portellone di legno. Dietro una casa così grande c’è un praticello davvero un po’ piccolo, con un paio di alberi, uno gigantesco, ma senza frutti.

I bidoni sono dietro il box, ce ne sono tre, due di metallo e uno di plastica. Vuoti. Forse qui non ci vive più nessuno.

Mi volto e sto tornando verso la via quando mi accorgo di una macchia arancione sopra la porta del retro. Una lampadina piccola, così debole che riesce a rischiarare solo la parte di sopra della porta. È una zanzariera. Dietro la rete c’è del vetro. La zanzariera è fissata con due aggeggi muniti di ganci e quando li giri, viene via.

Il vetro che c’è dietro alla zanzariera è diviso in tante finestrelle. Ce ne sono nove, inserite in un telaio di legno. Ne tocco una piano piano e trema un po’, ma non succede niente. Tocco più forte, busso qualche volta. Ancora niente. Lo stesso quando busso alla porta.

Mi tolgo la maglietta, me l’avvolgo sulla mano e picchio sul riquadro più basso di sinistra. Il vetro non cede, ma la seconda volta, quando tiro un pugno più forte, il vetro si stacca, cade dentro la casa e si rompe.

Un gran baccano.

Non succede niente.

Infilo il braccio e tasto e trovo il pomello. Al centro c’è un bottone e quando giro il bottone, schizza all’infuori con uno scatto e la porta si apre.

Mi rimetto la T-shirt ed entro. Mi ci vogliono pochi secondi per abituare gli occhi al buio. Sono in una specie di lavanderia, con una lavatrice-asciugatrice, una scatola di detersivo sopra, degli stracci. Poi viene una cucina che puzza di spray insetticida, con un sacco di piante sopra i mobiletti. Apro il frigorifero e all’interno si accende una luce e anche se ho visto del cibo, mi affretto a richiuderlo perché la luce mi fa sentire nudo. Mentre lo sportello si richiude vedo un adesivo con il simbolo della non violenza e un altro con scritto LA SORELLANZA È TUTTO.

Il cuore mi batte davvero forte. Ma è un tipo di paura diverso, non mi dispiace affatto.

Vado in giro, da una stanza buia all’altra, solo mobili qua e là. Poi torno verso la cucina. Dietro una porta chiusa che incontro c’è un bagno, con altre piante sulla vaschetta del water. Accendo la luce e la spengo. Mi schiarisco la gola. Non succede niente.

La casa è vuota.

Mi sto divertendo.

Rientro in cucina. Alla finestra sopra il lavello ci sono tende con i fiori e una frangia di palline pelose. Sorellanza. Qui ci vivono delle donne, un uomo non avrebbe tutte quelle piante.

Va bene, proviamo di nuovo il frigo. Sul ripiano più alto ci sono due bibite in lattina e un bottiglione di plastica con dentro un avanzo di succo d’arancia. Tre sorsi. Amaro. Mi metto le lattine in tasca. Poi ci sono un tubetto di margarina Mazola e una vaschetta di Philadelphia. Apro il formaggio e lo trovo ricoperto di muffa verde. La margarina mi sembra mangiabile, ma non so che cosa farci.

Sotto ci sono un vasetto di yogurt alla fragola e tre sottilette, indurite e arricciate lungo i bordi. Niente muffa. Le mangio tutt’e tre.

Questa gente è senz’altro via da parecchio tempo.

Sul ripiano più basso ci sono una busta di mortadella magra ancora sigillata (me la metto in tasca insieme con le lattine) e un ananas intero, con il ciuffo verde ancora in cima e qualche punto dove si è ammollato.

Lascio aperto il frigorifero per avere un po’ di luce, poso l’ananas su uno dei mobiletti e apro i cassetti finché trovo coltelli e forchette. Con le posate ci sono anche spille da balia ed elastici per i capelli.

Prendo il coltello più grande e taglio l’ananas a metà. I punti molli sono quelli che sono diventati marroni e si stanno allargando in tutto il frutto come una malattia. Li ritaglio (davvero buono questo coltello) e riesco a ricavare qualche bella fetta di ananas superdolce, una vera squisitezza.

L’ananas mi aumenta l’appetito e assaggio la mortadella e finisce che me la mangio tutta, dalla prima fetta all’ultima, in piedi davanti al mobiletto. Poi altro ananas. Il succo mi cola dal mento sulla maglia e mi brucia la faccia dove mi sono tagliato.

Poi una lattina.

Ora la pancia mi fa morire perché è piena.

Torno al bagno che c’è appena dopo la cucina, faccio pipì, mi lavo le mani e la faccia. Poi vedo la doccia. Su una mensola ci sono sapone e shampoo e balsamo e un prodotto che non conosco, dove c’è scritto che scioglie i nodi nei capelli.

Tutta l’acqua calda che voglio. Ce ne aggiungo di fredda, trovo la temperatura giusta, la faccio scorrere più forte che si può. Chiudo la porta a chiave, mi spoglio e mi metto sotto il getto. L’acqua è come aghi, fa male, ma in una maniera bella.

Faccio la doccia più lunga della mia vita, senza mamma ad aspettare di mettersi sotto e starci mezza giornata per prepararsi per Moron; senza Moron che vuole andare a sedersi sul water per un’ora.

Continuo a insaponarmi e risciacquarmi, insaponarmi e risciacquarmi. Non devo tralasciare nemmeno la più piccola parte di me, capelli e unghie, narici, sedere, fin dentro. Voglio eliminare fino all’ultimo bruscolo di sudiciume.

Poi davanti, sotto le palle.

Mi è diventato duro.

Mi piace.


Sono qui ad asciugarmi, felice di sentirmi pulito e al sicuro, penso a luoghi lontani, a posti immaginari, montagne enormi, maestose e purpuree, come la canzone, un oceano d’argento, i surf sulle onde, ragazze in bikini che ballano l’hula, delfini, Jacques Cousteau, pesci chirurgo blu, pesci chirurgo gialli, murene, nautilus.

Poi sento un rumore e per un momento penso di essere schizzato davvero, di aver creato un film di isole tropicali con tanto di colonna sonora, poi le voci diventano più chiare.

Voci di donne. Poi un tonfo, qualcuno che mette giù qualcosa.

Luce sotto la porta. Dalla cucina.

Un grido.

Un grido vero.

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