«Muoviti, muoviti, cammina, piccolo bastardo.»
Mi sibilano dentro l’orecchio, mi stringono, mi spintonano.
Lei è quella rabbiosa, lui è impaurito, nervoso. Inciampa persino un paio di volte.
«Avanti!» Lei mi pianta la pistola nelle costole e quando io grido me la pianta più a fondo e dice: «Zitto!» Non è per niente nervosa.
È lei che comanda.
Quando siamo più vicini a dove i guardiani parcheggiano i loro veicoli, comincio a pregare che questa volta ci sia qualcuno dello zoo, ma non c’è nessuno. Devo mettermi a urlare? No, ho la pistola ficcata nella schiena, non le ci vuole molto per premere il grilletto e spappolarmi la pancia. Ora siamo al recinto. C’è il lucchetto. Ed è chiuso!
«Fallo!» ordina lei mentre guarda da tutte le parti. Tiene la pistola puntata su di me e lui si toglie di tasca una chiave e apre il lucchetto.
Conoscono questo posto.
Si sono preparati bene. Mi violenteranno.
Lui torna indietro, mi afferra, mi respira nell’orecchio e all’improvviso sento che lo stomaco comincia a ribaltarsi, gira forte, veloce, fa male, devo andare in bagno.
Mi spingono di nuovo. Mi sembra di essere in un film, di recitare una parte, e ora mi accorgo che non ho più paura e che la mia mente è occupata da qualcos’altro: è come essere addormentati e svegli allo stesso tempo, come trovarsi in un sogno ma sapendo di esserci e allora puoi controllare ogni cosa se solo ti concentri, puoi far succedere le cose nel modo che vuoi tu.
Forse è come ci si sente dopo morti.
Entriamo e cominciamo a salire tra gli alberi. Lui fa questi grugniti liquidi.
«Tu», dice, stringendomi più forte il braccio, come se avessi fatto qualcosa di male.
Io tengo la testa bassa, vedo le mie scarpe, le sue.
«Avanti, avanti», ripete lei, agitando la mano mentre andiamo nel folto delle felci, per lo stesso sentiero che ho preso io, quello che pensavo che fosse un mio segreto.
Continuano a spingermi, a dirmi di camminare più veloce, mi portano verso un albero grande, non il mio eucalipto, un altro, anche quello con i rami bassi.
Lo superiamo. Continuiamo finché siamo davanti a un altro albero ancora e c’è un gran silenzio, nessuno in giro. Anche se mi mettessi a strillare nessuno mi sentirebbe.
Lei si ferma un po’ più in là, sempre puntandomi la pistola, guarda il suo astuccio. Tenendomi per un braccio, lui tira fuori la sua macchina fotografica e gliela dà.
«Okay», mi dice lei.
Io non so che cosa vuole, così non parlo e non mi muovo.
Lei viene da me e mi dà uno schiaffo in faccia da farmi girare la testa, eppure non fa tanto male quanto dovrebbe.
«Fallo, stronzetto!»
«Che cosa?» domando io ma mi esce la voce di un altro bambino. Come se fossi fuori del mio corpo a guardarmi in un film di robot.
Lei alza la mano per colpirmi di nuovo e io cerco di proteggermi la faccia con il braccio. Lui mi dà una ginocchiata nella schiena e quella sì, che fa male.
«Tirati giù i calzoni, furbetto. Lascia che se li tolga, cara.»
Lui mi lascia andare e lei continua a mirarmi con la pistola. Io mi tocco i calzoni ma non li abbasso. Lui abbassa i suoi, se li lascia cadere intorno alle gambe. Sotto ha dei grandi boxer bianchi e adesso si mette la mano nella patta… Io mi giro dall’altra parte.
«Cosa?» ride lei. «Non venirmi a raccontare che non ne hai mai visto uno. Via quella roba, avanti, mostraci il tuo lato buono.»
Io non mi muovo. Lei mi schiaffeggia di nuovo. Se non avesse la pistola, le spaccherei la faccia, le staccherei la testa dal collo.
Ride di nuovo. «Ubbidisci e sarà finita prima che tu abbia il tempo di dire ahi. Fa’ un po’ male, ma vedrai che è una sciocchezza.»
Fa rumori di baci. Li fa anche lui.
«Certo», dice la voce dell’altro bambino. «Certo, certo, so che cosa vuoi dire. Solo…»
«Solo cosa?» Lei si avvicina, mi appoggia la canna al naso. È fredda e puzza di distributore di benzina.
Con la coda dell’occhio vedo che i suoi boxer sono finiti per terra, ma ce li ha ancora intorno alle caviglie, come se non volesse togliersi proprio tutto. Sta muovendo il braccio su e giù…
«Solo», dice il bambino, «io… sì… mi piace, posso farlo. Certo, va bene, però… ecco… prima devo…»
«Devi cosa?» La pistola mi dondola davanti agli occhi.
«Lo sai.»
«Io non so un bel niente! Che cosa vuoi?»
«Devo… andare di corpo.»
Silenzio.
«Hai sentito?» gli dice.
«Sì», risponde lui, molto sottovoce, e io penso oh no, non dirmi che gli piace anche di più, che sono cascato dalla padella nella brace.
Lei si gira e lo guarda e per un secondo penso di darmela a gambe, ma poi la sua faccia è di nuovo davanti alla mia e non so perché mi viene in mente che con una faccia come quella potrebbe essere un’insegnante, una mamma o una nonna, non è colpa mia…
«Allora?» gli chiede.
«Ehm… oggi no.»
«Avanti, puttanella», dice a me. «Fai quello che devi fare e usa la maglietta per pulirti il culo. Dopo ci mostrerai il tuo lato buono.»
Io mi calo i calzoni e anche se è una giornata calda, una bella giornata, una giornata di limonata e mais, mi sento le gambe come pietra.
«Com’è bianco», dice lui.
«Sbrigati, falla, falla.» È emozionata e io capisco: la malattia di lui è farsi i bambini, quella di lei è comandare. Guardare.
«Via quelle mutande, dannazione… Via, avanti, falla finita.»
Mi calo gli slip. Mentre mi chino riesco a spostarmi un po’ più lontano da lei, ma solo pochi centimetri. Intorno c’è un grande silenzio, un grande verde, anche le foglie non si muovono, è come se noi tre fossimo dentro una grande fotografia o forse questo è l’ultimo momento prima che Dio distrugga il mondo. E perché non dovrebbe farlo?
«Falla se no ti ammazzo!» Ho la pistola e la macchina fotografica puntate addosso. Scatterà fotografie di tutto. Io sono il suo souvenir.
Il problema è che prima avevo un bisogno pazzesco, ma adesso non ci riesco, è come se i miei organi fossero blocchi di ghiaccio incastrati uno contro l’altro.
«Falla se no te la sparo fuori io!»
Il suono della sua voce, il pensiero che mi sta per sparare, mi rimette in moto le viscere e la faccio.
Poi metto una mano dietro per prenderla.
Che schifo, mi fa ribrezzo, ma mi dico che è solo cibo digerito, roba che era dentro di me fino a poco fa…
«Ma guarda», dice lei. «Disgustoso piccolo maiale.»
«Disgustoso», ripete lui. Ma intende qualcos’altro.
Io alzo gli occhi e la guardo. Annuisco. E sorrido. Lei è sorpresa, non si aspettava un sorriso e per un secondo distoglie lo sguardo.
Allora, anche se negli sport non sono mai stato bravo, io prendo la mira e tiro.
Bam! Diritto in faccia e sulla macchina fotografica, sulla maglietta.
Grida e vacilla all’indietro e si spazza con le mani. Lui inciampa nei suoi calzoni, confuso. Si riveste per correre da me, ma è lei che devo sorvegliare perché è lei che ha la pistola. Sta ancora strillando e gesticolando. Io mi tiro su gli slip e i calzoni e prima ancora di essermeli sistemati addosso, sono lì che corrocorrocorro, tra rami che mi graffiano la faccia, via nello spazio, via nel verde, un verde che non finisce mai, un tempo che non si ferma mai, corro, inciampo, mi tuffo.
Volo.
Sento come un battimani, forte, non mi fermo, non c’è niente che mi fa male, sto bene o forse no ma non sento niente lo stesso, non posso più sentire, non sarebbe brutto, non sarebbe affatto brutto.
Mi butto nel verde.
Grazie gorilla. Se potessi respirare riderei.