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Il sole spunta alle mie spalle, arancione. Più brillante che al parco, non ci sono alberi a coprirlo. L’oceano ruggisce, grigio. La plastica nera è troppo sottile. Ho freddo.

In spiaggia non c’è ancora nessuno, così me ne sto qui sdraiato a guardare il sole e le poche macchine che vanno e vengono per la costiera. I grossi pali che reggono il molo sono neri di catrame e incrostati di cirripedi. Ne vedo uno che è aperto, lo tocco con il dito e si chiude.

Nel libro di Jacques Cousteau c’era un capitolo sui cirripedi. Restano dove sono, mangiano quello che porta il mare. Fabbricano la propria colla ed è forte, peggio dell’Attak. Alle volte non si riesce a scalzarli.

Ora va meglio, l’aria si sta riscaldando un po’. È meglio che mi muova. Mi alzo e mi scrollo la sabbia dai capelli, ripiego la plastica e la infilo dietro a uno dei pali, uso un sasso per bloccarla.

È tempo che mi procuri qualcosa di tutto quello che mi manca. Da mangiare, soldi. Un cappello. Mi ricordo quella scottatura. Magari della crema protettiva.

Dove devo andare? Dovrei abbandonare L.A.? Non a nord, perché lì mi avvicino a Watson. A sud, forse, a San Diego. E se poi non funziona? La prossima fermata sarebbe il Messico e di andare in un paese straniero non si parla proprio!

Se resto a L.A., dove mi nascondo?

Ci penso per molto tempo e mi prende una paura tremenda. La stessa sensazione di quando ho guardato PLYR… Devo smetterla di pensare a quella volta…

È stupido anche stare a fare progetti. Non ho futuro. Anche se sopravvivo per qualche mese, un anno, due, che cosa ci guadagno? Sarei ancora un bambino senza istruzione, senza soldi, senza controllo su niente.

Ancora nessuno in spiaggia. È marrone chiaro, così tranquilla. Anche l’oceano, grigio come acciaio eccetto dove fa risacca, si alza a spruzzare nell’aria, come sputando al cielo.

Sputando a Dio…

Non sarebbe bello scendere camminando nell’acqua e lasciarsi trasportare via? Forse così si annega. O forse avverrebbe un miracolo e verrei sospinto su un’isola di palme come una di quelle bottiglie con dentro i messaggi. Ragazze vestite solo di una gonna di erba, con i capelli neri e lunghi fino al sedere, e tu che esci dall’oceano come una divinità e loro tutte felici di vederti, che si azzuffano per essere la tua ragazza, prendersi cura di te, darti da mangiare un maiale allo spiedo con una mela in bocca e frutta che colgono direttamente dagli alberi, nessuna obbligata a lavorare.

Vada in un senso o nell’altro, niente più preoccupazioni.

Mi alzo, scendo all’oceano, mi rimbocco i calzoni e resto lì a lasciare che le onde mi solletichino le dita dei piedi.

Fredde. Mi si intorpidiscono i piedi e a guardarli mi sembrano cera bianca.

Quanto tempo passa prima di smettere di sentire freddo? Prima che il tuo corpo smetta di sentire qualcosa?

Ho letto che le gazzelle e gli gnu aggrediti dai leoni smettono di sentire dolore, così la loro morte è meno crudele.

A me non è andata così con i pervertiti, perciò si vede che vale solo per gli animali.

O forse io non ci sono arrivato… abbastanza vicino.

Se uno non sente e non ha paura, può anche concedersi come un sacrificio… come ha fatto Gesù.

Devo aver camminato, perché adesso sono nell’acqua fino alle ginocchia e i calzoni si sono gonfiati e mi galleggiano intorno alle gambe. L’acqua è meno fredda. Mi dà sensazione di pulito. Continuo a camminare. L’acqua mi sbatte contro la cintura e mi fermo e guardo lontano, verso l’orizzonte dell’oceano. Forse vedo una nave o il soffio di una balena.

C’è qualche uccello in cielo, volteggiano, scendono in picchiata. Faccio un altro passo. Solo uno, ma fa una grande differenza, non sento più niente sotto di me e tutt’a un tratto ho l’acqua al collo, cerco di camminare all’indietro ma non trovo un punto d’appoggio e adesso sento l’acqua che si muove sotto di me e ce l’ho sopra la testa, ingoio acqua, rigurgito… su di nuovo, vedo la linea della superficie, la spiaggia diventa più piccola. Comincio a nuotare, ma non serve. Qualcosa mi spinge in avanti, non ho controllo, mi metto a scalciare, agito le mani, bisogna stare calmi stare calmi, ma vengo sospinto al largo, risucchiato, non voglio! Sono piccolo, più debole di un cirripede, perché non ho colla. Mi viene in mente la mamma, come starà male, che freddo, mi bruciano gli occhi, mi brucia la gola, gli occhi devo tenerli aperti ma nonriescoatenerelatestasopra…

Di nuovo in aria, a tossire e sputare, gli occhi che bruciano, la gola come se me la stessero grattando con un coltello e vengo di nuovo trascinato… no, la spiaggia è più vicina…

L’oceano mi lancia verso l’alto, la sabbia è ancora più vicina. Mi sta liberando come Giona? No, no, vado sotto di nuovo, bevo tanta acqua che ho paura di esplodere, poi su, a tossire, vomitare, sassi nell’acqua, mi colpiscono, pungono, mi grattano tutto il corpo. Terraferma. Sabbia.

Di nuovo sulla spiaggia.

Ho la sabbia appiccicata ai vestiti fradici. Il sale mi fa bruciare i graffi. Rotolo allontanandomi dall’acqua.

Salvo.

Un’altra occasione.

Dio?

Oppure l’oceano ha deciso che ero spazzatura e mi ha sputato come cibo guasto?


Torno in fretta al molo ancora tossendo e sputando acqua salmastra, crollo a terra, resto lì a cercare di prendere un po’ di sole, asciugarmi. Adesso c’è gente, poche persone. Io bado ai fatti miei. Dopo un’ora sono più asciutto, ma ancora umido, mi fa male il petto e sono tutto graffiato dalla sabbia ma… sono qui.

Ho bisogno di concentrarmi. Soldi e un cappello. Da mangiare. Crema protettiva.

Quasi del tutto asciutto, faccio due passi. Sul molo c’è. una ruota panoramica, ci sono un autoscontro e una giostra, ma è tutto chiuso e sprangato e non c’è niente da prendere. Qualche ristorante, ma tutti chiusi anche quelli, e da mangiare in giro c’è solo del vecchio popcorn che si è appiccicato per terra.

In fondo al molo c’è una baracca che vende esche. È aperta. Dietro il banco c’è un tizio dall’aria sporca e ci sono grandi tinozze bianche piene di acciughe, alcune già morte che galleggiano in superficie. C’è gente che pesca, soprattutto vecchi cinesi e qualche nero. Nessuno prende niente. Tutti sembrano morire di noia. Me ne vado dal molo.

Su, più in alto della spiaggia, c’è una strada piena di ristoranti e alberghi eleganti. Niente che possa servirmi. A nord c’è un piccolo parco con qualche anziano e qualche barbone e se continui a guardare dopo un po’ ti sembra che la strada scompaia. Tutti quegli alberi… troppo simili a so-bene-dove.

Così m’incammino a sud e l’ambiente comincia a sembrarmi un po’ più familiare, motel e condomini, balordi che potrebbero anche essere gli stessi del boulevard. Trovo mezza ciambella per la strada e mi sembra commestibile. Un isolato più avanti vedo sul marciapiede un resto di Twix, ma è troppo sciolto e fa troppo schifo e riesco a mangiarne solo un bocconcino.

Più avanti un cartello dice che sono a Venice. Case piccole, gente, un sacco di messicani. Prendo per una via. In fondo c’è di nuovo l’oceano e presto sono su questa promenade molto larga che si chiama Ocean Front Walk, come un marciapiede gigante, con l’oceano da una parte, negozi dall’altra, gente di tutti i tipi, straccioni, neri, splendide ragazze-bikini sugli schettini, con le guance del sedere che vengono fuori, i ragazzi che le lumano. Gente giovane, come studenti di università, gente vecchia seduta sulle panchine, ciclisti con tatuaggi, un sacco di cani grossi con l’aria cattiva. Ci sono dei tipi alla Arnold Schwarzenegger che fanno ginnastica in certe zone recintate, con il corpo tutto luccicante di unguenti così i muscoli sembrano pompelmi che cercano di scoppiare fuori della pelle.

I negozi sono soprattutto piccoli e vendono roba da poco. Fast food, gelatai, bibite fresche, occhiali da sole, souvenir, cartoline, T-shirt, costumi da bagno.

Cappelli che dicono CALIFORNIA! oppure MALIBU! oppure VENICE! Mi piacerebbe qualche vestito asciutto, ma c’è troppa gente per riuscire a prendere qualcosa.

Però potrebbe essere un buon posto dove fermarmi, vedere che cosa succede dopo. Decido di andare da un’estremità all’altra dell’Ocean Front, vedere un po’ come butta.

A metà strada vedo una palazzina grigia con una stella a sei punte sulla porta. Una stella ebraica, lo so dal mio libro di storia, al capitolo Il Medio Oriente: culla della civiltà.

Una chiesa ebraica. Com’è che le chiamano? Sinagoghe? Ci vado. Vicino alla porta c’è una scritta in ebraico con la traduzione. Sopra la porta dice: CONGREGAZIONE BETH TORAH.

Potrebbe essere un buon colpo. Gli ebrei hanno sempre denaro. Almeno così diceva Moron, la menava che erano tutti fottuti banchieri, succhiavano il sangue alla nazione, avevano ammazzato Gesù e adesso volevano anche i nostri soldi.

Come se lui ne avesse mai avuti.

Poi penso: perché dovrebbe aver avuto ragione? Aveva torto su tutto il resto. Eppure… che ci fa una chiesa in mezzo a tutti questi negozi se non perché piazzandosi qui c’è da ricavarci dei soldi?

Non è solo per via di Moron, anche mamma era d’accordo con lui, diceva, sai, cowboy, quelli hanno proprio il pallino per fare soldi, devono avercelo nel sangue.

«Quanto sei scema.» Lui rideva. «Non è il pallino, è che ci fregano. È il GOS, che cazzo! Sai che cos’è? Governo di Occupazione Sionista. Vogliono farci fuori. E non sono nemmeno umani. È stato il diavolo che si è scopato un serpente a scodellarli, lo sapevi? C’è un solo popolo eletto ed è la razza ariana.»

Quella sera ero seduto al tavolo della cucina a cercare di studiare la Guerra Civile. Ma poi mamma ha cominciato a raccontare una storia e l’ho ascoltata. Su non so quale famiglia di ebrei ricchi che avevano una grande coltivazione di fragole giù vicino a Oxnard. Lei e i suoi genitori andavano a cogliere le fragole quando era piccola. E quegli ebrei avevano una grande casa bianca a due piani e una Cadillac.

«Fottute sanguisughe», ha detto Moron.

«No, erano carini, gente a posto…» ha cominciato lei. Ma lui l’ha guardata e allora lei ha detto: «Certo che amavano i loro soldi. La moglie si vestiva sempre come se dovesse uscire a cena ed era solo la moglie di un fattore. E c’era quella grande casa, forse tre piani, un mazzo di antenne TV sul tetto, mentre noi si dormiva in queste baracche con la stufa a cherosene.»

«Bastardi.»

Anche se sono tutte bugie, certe volte c’è un po’ di verità anche nelle bugie. A me non occorrono migliaia di dollari ebrei, mi basta qualche spicciolo.

Un avviso di fianco alla porta della sinagoga dice che le preghiere sono il venerdì sera e che l’ora di accendere le candele è le 19.34. Vai a capire.

Non c’è nessuno che guarda. Provo la porta. Chiusa a chiave. Il posto dopo si chiama Cafe Eats, ed è chiuso anche quello.

C’è uno spazio tra la chiesa e il Cafe Eats. Passo dietro, dove c’è un vicolo, macchine parcheggiate, ma nessuno di passaggio. Due spazi vuoti dietro la sinagoga. Pregano il venerdì sera. Sarebbe domani.

Do un’occhiata alla porta sul retro. Legno comune, con un gingillo di legno inchiodato al telaio sul lato destro, anche quello con una stella ebraica. Sarà un portafortuna o che so io, forse per chiedere soldi a Dio.

Anche la porta sul retro è chiusa a chiave. Di fianco c’è una finestra, piccolina, troppo piccola perché ci passi un uomo, ma abbastanza grande per me. È coperta da una zanzariera, come alla casa dell’ananas. Anche questa viene via facile.

Non ho bisogno di rompere la finestra, è allentata. Quando la spingo, tintinna. Così spingo più forte e sento che cede, poi qualcosa molla all’improvviso e la finestrella si spalanca e io guardo da una parte e dall’altra nel vicolo.

Nessuno. Sono dentro.

Mi sto perfezionando.


La stanza in cui sono finito è un bagno, piccolo ma pulito, water, lavandino e uno specchio. Niente doccia. Lo specchio mi dice che non sono così terribile come pensavo, solo un po’ di graffi in faccia e qualche crosta biancastra intorno alle orecchie e alle labbra. Me le lavo via. Uso il water. Considerato che per poco annegavo, posso ritenermi soddisfatto dell’aspetto che ho.

Ringrazio Dio, nel caso sia stato davvero Lui. Mi lavo le mani.

E adesso andiamo a cercare un po’ di soldi ebrei.

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