In otto mesi Petra aveva lavorato a ventun altri casi di omicidio, alcuni dei quali elementari. Nessuno però come questo. Nemmeno le nozze Hernandez.
L’avevano scannata. Era inondata di sangue. Immersa nel sangue, come un frutto nella cioccolata. Il vestito era un ammasso raccapricciante, dagli squarci nel tessuto spuntavano, grigi e luccicanti, tratti di intestino. Tessuto setoso, poco adatto a trattenere impronte. Anche il sangue avrebbe fatto la sua parte, togliendo la possibilità di rilevare qualcosa dalla pelle. Chissà, forse i gioielli, se l’assassino li aveva toccati.
Giunsero sul luogo nell’oscurità, incontrando volti incupiti, tra scrosci di disturbi radiofonici e sventagliate di lampeggianti rossi. Ascoltarono il rapporto dei ranger che avevano trovato il corpo e attesero lo spuntar del sole per esaminare meglio la vittima.
Il sangue si era rappreso diventando più scuro, aveva disegnato strisce sulla pelle e sull’asfalto circostante, era colato in rivoli nel piazzale, dove alcune macchie erano ancora allo stato semiliquido.
Immobile davanti al cadavere, Petra disegnò il terreno circostante e la posizione della vittima, prese nota delle ferite che riusciva a vedere. Almeno diciassette tagli, e questo solo sul lato anteriore.
Si avvicinò più che poté senza correre il rischio di manomettere qualcosa, si chinò ed esaminò le carni martoriate, il labbro inferiore quasi asportato, l’occhio sinistro ridotto a poltiglia rossa. Tutti i colpi inferti sul lato sinistro.
Ah, papà, se vedessi in questo momento la tua figlioletta così schizzinosa.
A dispetto di ventun cadaveri precedenti, la vista di quello nella luce del sole la nauseò. Poi ebbe il sopravvento un’altra emozione: il dolore della compassione.
Poveretta. Povera, povera donna, perché un destino così atroce?
Non lasciò trapelare nulla. Nessuno che l’avesse osservata avrebbe notato altro che professionale efficienza. Più che definita, era già stata bollata come efficiente. Classificandola in questo modo, Nick aveva lasciato intendere che la competenza non era una qualità sexy. Insieme con tutte le altre cattiverie che le aveva scaricato addosso. Come mai non si era accorta di nulla?
Le piaceva essere vista come una professionista. Aveva trovato una professione che le piaceva.
Un mese prima era andata da un parrucchiere di Melrose e aveva ordinato a un recalcitrante coiffeur di accorciarle i capelli di una spanna buona, cambiando l’acconciatura in un caschetto nero che avrebbe ridotto al minimo le cure da dedicarvi.
Stu l’aveva notato subito. «Complimenti, ti dona molto.»
Petra pensava che le incorniciasse al meglio il volto magro e pallido.
Da tempo sceglieva l’abbigliamento in base alla praticità. Completi di giacca e pantalone che comperava in saldo da Loehmann’s o Robinsons-May e che rifiniva lei stessa a casa per adeguarne la lunghezza di maniche e calzoni alla sua notevole statura. Soprattutto neri, come quello che indossava quel giorno. Un paio blu scuro, un completo color cioccolato, un altro fumo di Londra.
Usava rossetto MAC rosso scuro con una punta di marrone, un velo di ombretto e mascara. Niente fondotinta, lasciava la sua pelle bianca e liscia come un foglio di carta. Niente gioielli. Niente a cui un ricercato potesse aggrapparsi.
La vittima aveva messo il fondotinta.
Lo si vedeva bene là dove non era macchiata di rosso. Una traccia di fard, cipria, mascara un po’ più pesante di come lo usava lei sull’occhio rimasto intatto.
Quello danneggiato era un foro color amarena. Il bulbo era ridotto a una pallottolina di cellophane schiacciata e alcune gocce di liquido gelatinoso le luccicavano sul naso.
Bel naso, dove non era stato pugnalato.
L’occhio destro era sbarrato, azzurro, velato. Lo sguardo opaco della morte, impossibile da fingere, non ne esisteva un altro simile.
Fuga dell’anima? Che si lasciava dietro che cosa? Un involucro, non più vivo della pelle di un serpente dopo la muta?
Continuò a studiare il cadavere con la precisione di un pittore, notò un taglio piccolo ma profondo sulla guancia sinistra, che prima le era sfuggito. Diciotto. Non poteva rivoltare il corpo prima che il fotografo avesse finito e il coroner non le avesse dato il consenso. La conta definitiva delle ferite sarebbe stata di competenza del patologo, dopo che il cadavere fosse stato esaminato sul suo tavolo di metallo.
Aggiunse la ferita alla guancia al suo schizzo. Tanto per non sbagliare; l’ufficio del coroner era uno zoo, i medici commettevano errori.
Stu era in disparte con il coroner, in quel momento, un uomo maturo di nome Leavitt. Erano entrambi seri, ma sereni, niente battute di cattivo gusto come quelle che senti nei film polizieschi. Gli investigatori in carne e ossa che aveva conosciuto erano perlopiù gente normale, abbastanza intelligenti, pazienti, tenaci, avevano ben poco in comune con i personaggi dei film.
Cercò di vedere sotto il sangue, di farsi un’idea della persona dietro a quel massacro.
La donna sembrava giovane e Petra era sicura che fosse stata anche graziosa. Anche ridotta in quello stato, scaricata in quel piazzale come un’immondizia, lasciava intravedere la finezza dei lineamenti. Non alta, ma con gambe lunghe e snelle, scoperte fino a metà coscia, vita stretta nel vestitino nero di seta. Seno prosperoso, forse al silicone. Ormai quando vedeva una donna slanciata con un seno importante, Petra dava per scontato l’intervento del chirurgo.
Nessun segno di sostanze aliene, ma con tutto quel sangue non si poteva escludere. Che conseguenze poteva avere uno squarcio in un seno siliconato? E poi che aspetto aveva il silicone? Otto mesi alla squadra Omicidi e dell’argomento non si era mai dovuto discutere.
Il collant era lacerato, ma sembrava che si fosse strappato sull’asfalto. Nessuna traccia evidente di aggressione sessuale, nessuna goccia di liquido seminale visibile intorno ai resti della bocca o alle gambe.
Chioma sontuosa. Biondo miele, ottimo lavoro di tintura, un principio di radici scure, ma niente più dell’inevitabile. Il vestito era un jacquard con cuciture a mano e, per come era raccolto intorno alle spalle, le permetteva di leggere l’etichetta. EMPORIO ARMANI.
I gioielli dai quali Petra sperava di ricavare impronte digitali erano un bracciale di diamanti e altre pietre al polso sinistro, un anello di zaffiri e brillanti, i brillantini ai lobi. Oltre a un Lady Rolex d’oro.
Niente fede nuziale.
E nemmeno la borsetta, perciò era inutile sperare in un’identificazione in tempi brevi. Com’era finita laggiù? Era fuori in compagnia? Capelli vistosi, vestitino corto: una squillo attirata in strada con l’esca di un premio in denaro?
La borsetta era scomparsa, ma i gioielli c’erano. Solo l’orologio doveva valere tremila dollari. Dunque non era una rapina. A meno che il responsabile fosse stato un delinquentello più stupido della media, che si era lasciato prendere dal panico dopo averle scippato la borsa.
No, non aveva senso. Quelle ferite escludevano una reazione di panico o una rapina. Quel macellaio ci aveva impiegato il suo tempo.
Aveva portato via la borsa per far credere a uno scippo senza pensare ai gioielli?
Qualcuno che si accaniva accecato dalla furia. Ferite profonde, non tagli difensivi; ma i tagli difensivi erano più rari di quanto la gente fosse normalmente indotta a credere e un uomo di corporatura discreta non avrebbe faticato a sottomettere una donna di quella taglia.
Ma poteva indicare qualcuno di sua conoscenza.
Lo faceva pensare senz’altro l’eccesso.
Forse la bionda era stata sorpresa a guardia abbassata?
La mente di Petra fu inondata da uno scorrere veloce di immagini. Le arginò. Era troppo presto per azzardare teorie.
Dio, quanta ferocia. L’attacco di un predatore. Lo sventramento doveva essere stato il colpo fatale, ma la gran parte delle ferite erano concentrate sul volto.
Sventrarla e poi cercare di cancellare la sua bellezza? Un odio così intenso, un’esplosione di odio.
Qualcosa di personale. Più Petra ci pensava e più le sembrava logico. Che tipo di relazione aveva portato a un gesto simile? Marito? Fidanzato? Un ragionevole facsimile di amante?
Un animale scatenato.
Petra aprì i pugni e si ficcò le mani in tasca. Indossava un completo giacca e pantaloni, crêpe leggera, nero, saldi Saks. Era comodo, perciò lo aveva indossato per l’appostamento.
Nel vestito della bionda c’era giusto un tocco di blu. Nero-blu immerso in acqua rugginosa.
Due donne in nero: il lutto aveva avuto inizio.
Stu continuava a conferire con Leavitt e Petra rimase accanto al corpo, come un guardiano.
A proteggere un involucro?
Da bambina, quando andava in escursioni di ricerca in Arizona con suo padre e suo fratello Dick, trovava spesso pelli abbandonate, diafani doni di serpi e lucertole, che raccoglieva e cercava di intrecciare, per farne cordicelle. Le si polverizzavano tra le mani e da allora aveva cominciato a pensare ai rettili come a esseri fragili, provandone minor timore.
Ma avevano continuato ad avvelenare per anni i suoi sogni. Come scorpioni, puma, civette, rospi cornuti, scarafaggi volanti, vedove nere, il branco di creature che arrivavano dall’Interstate sembrava sterminato.
Povero papà, condannato tutte le sere a far la fatica di inventare storie e stupite barzellette, e ossessive, ripetitive operazioni di controllo notturne, tutto solo perché la figlia minore dormisse concedendogli un po’ di tranquillità da genitore singolo.
Quando finalmente poteva godersi un po’ di solitudine, che cosa ne faceva?
Conoscendo papà, sapeva che il tempo libero era dedicato tutto a mettere i voti ai compiti in classe o a lavorare al libro di testo che non sarebbe stato mai finito. Un bicchierone di Chivas per darsi forza. Sapeva che teneva una bottiglia nel comodino e che la svuotava spesso, anche se non l’aveva mai visto veramente ubriaco.
Il professor Kenneth Connor, antropologo fisico di media reputazione, morto prematuramente già fossilizzato dall’Alzheimer. Venti mesi prima. Petra ricordava il giorno. Dava la caccia a una Mercedes rubata. Era arrivata in Messico quando la Centrale le aveva girato la chiamata che giungeva dall’ospedale. Disfunzione cerebrale. Una definizione edulcorata per colpo apoplettico. Secondo il neurologo, il cervello di papà era stato indebolito dalla placca.
Papà si era specializzato in genetica degli invertebrati, ma faceva collezione di conchiglie, pelli, crani, scaglie e altri frammenti di antiquariato organico, riempiendo di detriti e relitti la loro minuscola casa sull’autostrada nei pressi di Phoenix, dove imperava l’odore di un museo dimenticato. Un uomo buono, un padre premuroso. La madre di Petra era morta dandola alla luce ma mai papà aveva mostrato risentimento, anche se era certa che nel suo animo dovesse essere rimasta un’ombra. Lei senz’altro aveva scelto di punirsi, trasformandosi in un’adolescente rabbiosa e ribelle, dando sfogo a una bellicosità per la quale il padre era stato costretto a mandarla in collegio, dove lei aveva potuto crogiolarsi nel suo vittimismo.
Nel testamento aveva indicato espressamente di voler essere cremato e lei e i suoi fratelli avevano rispettato le sue volontà, spargendo le sue ceneri su una mesa nel cuore della notte.
Ciascuno di loro in attesa che uno degli altri dicesse qualcosa.
Era stato infine Bruce a rompere il silenzio: «È finita, ora è in pace. Possiamo anche andarcene da questo cazzo di posto».
Papà, il collezionista di tessuti organici, ridotto a particole grigie. Forse un giorno, in un futuro di milioni di anni, un archeologo avrebbe trovato una molecola di Kenneth Connor e formulato ipotesi sulla vita nel ventesimo secolo.
Ora davanti a lei c’era quel pezzo di carne morta, fresca e patetica.
Calcolava che dovesse aver avuto tra i venticinque e i trent’anni. L’elasticità della pelle del viso le faceva credere che non potesse essere più vecchia, non aveva visto dietro le orecchie cicatrici di un intervento di lifting.
Begli zigomi a giudicare dal lato destro. Tutto quello sinistro era una polpa rossastra. Probabile che l’assassino fosse destro e che la testa di lei fosse ruotata sul quel lato quando lui l’aveva accoltellata.
A parte Freshwater, gli altri ventun casi di cui si era occupata rientravano nell’ordinaria amministrazione: regolamento di conti e risse, pistolettate, botte, singoli colpi d’arma da taglio. Stupidi che ammazzavano altri stupidi.
Il peggiore era stato quello delle nozze Hernandez, una cerimonia tenutasi di sabato presso una sede di veterani di guerra quasi sul confine della Rampart Division. Al ricevimento lo sposo aveva ammazzato il padre della sposa con un coltello da torta nuovo di zecca, con manico di madreperla, aprendo il suocero dallo sterno all’inguine, sfilettandolo sotto gli occhi inorriditi della neomogliettina diciottenne e di un centinaio di invitati.
Bella luna di miele.
Petra e Stu avevano trovato lo sposo nascosto al Baldwin Park e lo avevano arrestato. Aiutante diciannovenne di un vecchio giardiniere, aveva nascosto il coltello in un sacco di fertilizzante a bordo del furgone del suo principale. Povero idiota.
Guarda, papà, ho risolto il caso, veloce rapida incisiva.
Immaginava il sorriso sorpreso di suo padre davanti alla trasformazione della sua schizzinosa e paurosa bimbetta.
Efficiente.
Inalò aria mattutina. Dolce, si sentiva la fragranza dei pini. A un tratto fu stanca di aspettare, provò il bisogno di fare qualcosa, capire qualcosa.
Finalmente Stu lasciò il dottor Leavitt e passò dietro il nastro allontanandosi nella zona del piazzale dove erano raggruppati i veicoli delle forze dell’ordine. Metodico come sempre, spiegava ai tecnici che cosa fare, che cosa non fare, che cosa prelevare per le analisi. Il coroner ripartì e rimasero gli inservienti dell’obitorio, ad ascoltare musica rap a bordo del loro furgone, che vibrava delle note del basso.
Tutti attendevano il fotografo e le unità K-9 per poter finalmente rimuovere il cadavere e lasciare che i cani controllassero la zona boscosa al di sopra del parcheggio.
Stu parlò a un agente in uniforme, muovendo impercettibilmente le labbra, il nobile profilo scolpito dalla luce del sole.
Capo Bishop. Se non avesse prima ottenuto un ruolo importante al cinema.
Lavoravano insieme da due settimane quando Stu aveva estratto il portafogli per offrire la colazione da Musso and Frank e lei aveva visto la tessera del Sindacato Attori accanto a una Visa per utenti abituali di compagnie aeree.
«Sei attore?»
La sua pelle celtica era arrossita. Aveva chiuso il portafogli. «Solo per caso. Qualche anno fa sono venuti in sede. Stavano filmando un episodio di Murder Street sul boulevard e per comparse volevano poliziotti veri. Mi hanno tormentato finché ho accettato.»
Non aveva saputo resistere. «Allora quand’è che avremo il calco delle tue mani e dei tuoi piedi nel cemento?»
Gli occhi color acquamarina di Stu si erano addolciti. «È un mestiere incredibilmente stupido, Petra. Incredibilmente egocentrico. Sai come definiscono se stessi? L’Industria. Come se fosse una manifattura di acciaio.» Aveva scosso la testa.
«Che genere di ruoli ti danno?»
«Piccole apparizioni. Non riescono nemmeno a impicciarmi sul lavoro. Il più delle volte girano la sera e se io sono ancora in città, partendo più tardi accorcio il viaggio perché c’è meno traffico. Così non posso nemmeno dire di perderci del tempo.»
Sorrise. Stava minimizzando e lo sapevano tutti e due.
Petra contraccambiò con un sorriso malizioso. «Hai un agente?»
Stu diventò paonazzo.
«Ce l’hai?»
«Se vuoi lavorare, ne hai bisogno, Petra. Sono degli squali. Avere qualcuno che tratta con loro vale il dieci per cento che sborsi.»
«Hai avuto anche parti parlate?» Petra era sinceramente interessata ma si sforzava anche di non scoppiare a ridere.
«Se dire: ‘Fermo lì, bastardo, o sparo’, è parlare.»
Petra aveva finito il caffè e Stu aveva bevuto un altro sorso della sua acqua minerale.
«Allora quando scriverai una sceneggiatura tutta tua?»
«Dai, Petra, non me lo merito», aveva protestato lui aprendo di nuovo il portafogli ed estraendo qualche banconota.
Ma la settimana dopo aveva accettato una parte a Pacoima. A Los Angeles tutti desideravano essere qualcos’altro, anche un uomo tutto d’un pezzo come Stu.
Lei no. Dopo un anno di college statale a Tucson, si era trasferita in California per iscriversi al Pacific Art Institute, aveva ottenuto una laurea in belle arti con specializzazione in pittura e si era messa in attività con un marito a condividere il suo letto. Nick aveva un ottimo lavoro come disegnatore di automobili al nuovo laboratorio della GM. Lei guadagnava qualche spicciolo illustrando inserzioni sui giornali e vendendo alcuni dei suoi lavori tramite una galleria cooperativista di Santa Monica, andando in pari con le spese che sosteneva per produrli. Poi era venuto il giorno dell’illuminazione: la sua non era una strada, era un capolinea. Ma almeno aveva Nick.
Poi la salute l’aveva tradita, Nick aveva gettato la maschera lasciandola stordita, al verde, sola. Una settimana dopo che lui se n’era andato, qualcuno si era introdotto nell’appartamento rubandole i pochi oggetti di valore che possedeva, compresi cavalletto e pennelli.
Era precipitata in una depressione durata due mesi, fino a una sera di novembre in cui si era finalmente trascinata fuori del letto per finire in macchina per la città, inerte, spenta, indifesa. Pensava di dover mangiare, la sua pelle aveva assunto un colorito terribile e aveva cominciato a perdere i capelli, ma non aveva appetito, l’idea stessa del cibo le dava la nausea. Si era ritrovata sulla Wilshire, e quando aveva girato per tornare verso casa il suo sguardo si era posato su un manifesto esposto nei pressi di Crescent Heights. Il dipartimento di polizia di Los Angeles stava reclutando nuovi agenti. Meccanicamente Petra aveva ricopiato il numero verde.
Erano trascorse altre due settimane prima che si decidesse a telefonare. La commissione aveva dichiarato che il dipartimento aveva soprattutto bisogno di reclutare donne. Era stata accolta con entusiasmo.
Era entrata all’accademia per puro capriccio, convinta che fosse un errore stupido e incomprensibile, e aveva scoperto con stupore di trovarsi bene, all’inizio, e in seguito di essersi appassionata. Trovava stimolo persino nelle difficoltà da superare durante l’addestramento fisico, nell’arte di usare più la flessibilità che la forza bruta per superare il Muro, nell’evitare di finire dietro una scrivania avendo scoperto di possedere ottimi riflessi e un talento naturale nel trovare la leva giusta con cui atterrare l’avversario nei corpo a corpo.
Persino nella divisa.
Non quella leziosa dei cadetti, celeste di sopra e blu scuro sotto, ma quella vera, tutta blu scuro, l’uniforme di chi fa sul serio.
Lei, che aveva stigmatizzato tanti compagni fascisti quand’era al collegio per il loro conformismo da branco, si era innamorata della sua divisa.
Molti dei maschi che frequentavano il suo corso in accademia erano fanatici della prestanza fisica e si erano fatti confezionare l’uniforme come una seconda pelle, in maniera da mettere in risalto bicipiti, deltoidi, latissimi.
La versione maschile di un WonderBra.
Una sera, d’impulso, si era confezionata la propria divisa, usando la vecchia Singer graffiata che aveva portato con sé da Tucson, una delle poche cose che i ladri le avevano lasciato.
Era alta un metro e settanta per cinquantotto chilogrammi, con gambe snelle, fianchi stretti, spalle squadrate, un sedere che considerava troppo piatto e un seno piccolo ma naturale che con il tempo aveva imparato ad apprezzare. Crescendo con un padre e quattro fratelli aveva scoperto la preziosa utilità di saper cucire.
Aveva dedicato gran parte dei suoi sforzi alla camicia perché le ingrossava la vita e con i fianchi che si ritrovava aveva bisogno di un minimo di forme. Il risultato finale aveva reso omaggio alla sua figura senza ostentazione.
Ottenuto il diploma la sua felicità era stata ancora più grande, anche se non aveva invitato nessuno alla cerimonia, ancora nervosa per quel che avrebbero potuto pensare di lei papà e i fratelli.
Aveva rivelato loro il suo segreto quando era in prova da un mese. Erano rimasti tutti sorpresi, ma nessuno l’aveva in alcun modo criticata. Ormai era lanciata.
Del lavoro alla polizia le andava bene tutto. L’addestramento fisico, il pattugliamento, gli appelli, le sessioni al poligono. Nemmeno la burocrazia le era di peso, perché se c’era una cosa che il collegio le aveva insegnato erano buone tecniche di apprendimento e padronanza della lingua inglese, cosicché si trovava in vantaggio sulla gran parte dei suoi muscolosi colleghi che vedeva masticare matite assorti in angoscianti dilemmi di sintassi e punteggiatura.
In diciotto mesi era stata promossa detective.
Guadagnandosi il diritto di piantonare un involucro.
Una nuova macchina si unì alle altre già parcheggiate. Un’ultracompatta con lo stemma del dipartimento sullo sportello. Ne uscì una fotografa della polizia con tanto di Polaroid professionale. Giovane, più o meno coetanea della vittima, vestita alla bell’e meglio, con capelli lunghi, troppo neri. Quattro fori in un orecchio, due nell’altro: piercing puro, niente orecchini. Volto ordinario, guance incavate, con una punta di acne su ciascuna. Occhi combattivi da Generazione X.
Mentre si avvicinava al cadavere, Petra ne costruì un identikit ipotetico: uno spirito artistico tornato con i piedi per terra, come aveva fatto lei. Probabilmente la sera si vestiva di nero, fumava erba e beveva stinger nei locali di Sunset Strip, bazzicando rockettari mancati che l’accettavano così com’era.
Aprì la fotocamera, abbassò lo sguardo ed esclamò: «Dio mio, ma io so chi è!»
«Chi?» chiese Petra richiamando Stu con un gesto.
«Non so come si chiama ma so chi è. È la moglie di Cart Ramsey. O magari la ex moglie ormai. L’ho vista in TV un anno fa. Lui la picchiava. Era uno di quei programmi di cronaca vera. Ha descritto Ramsey come un autentico pezzo di merda.»
«È sicura?»
«Al cento per cento», confermò la fotografa, seccata. Sul tesserino con fotografia che qualificava la sua professione compariva il nome Susan Rose. «È lei, mi creda. Dicevano che era stata una reginetta di bellezza e che Ramsey l’aveva conosciuta a un concorso… Dio, com’è conciata, che schifoso bastardo!» La mano con cui reggeva la fotocamera si contrasse e l’apparecchio dondolò.
Si avvicinò Stu e Petra gli ripeté che cos’aveva detto Susan Rose.
«Ne è sicura?» chiese lui.
«Gesù, sono più che sicura.» Susan cominciò a scattare fotografie, una via l’altra, puntando la fotocamera come se fosse un’arma. «In TV aveva dei lividi in faccia e un occhio nero. Quel maiale!»
«Chi?» domandò Petra.
«Ramsey. Sarà stato lui, no?»
«Cart Ramsey», scandì Stu senza inflessioni e Petra si domandò se Stu avesse lavorato agli episodi della serie di Ramsey… come si chiamava? The Adjustor: un investigatore privato che risolveva i problemi degli oppressi.
Sarebbe stata bella, ma Stu compariva di solito nei telefilm di guardie e ladri dove interpretava la guardia di contorno, lui che lo era davvero, in mezzo a sbirri finti.
Susan Rose sfilò una cartuccia dalla fotocamera e la ripose nell’astuccio.
«Grazie», le disse Petra. «Controlleremo. Lei finisca in pace il suo lavoro.»
«È lei, credetemi», ripeté Susan Rose sempre sulle sue. «Ora posso finirla? Ho preso tutte quelle che mi servono su questo lato.»