67

A casa di Sam ci sono un soggiorno, una cucina, due camere da letto con un bagno in mezzo. Mi ha dato un letto vero. Le lenzuola sembravano nuove. Sam ha dormito nell’altra stanza e io l’ho sentito russare attraverso il muro.

È a pochi isolati dalla shul, in quella che Sam chiama una via pedonale. Invece che una strada normale dove ci passi con l’auto, c’è un marciapiede forse due volte più largo di quelli soliti.

«Bisognerebbe passarci a piedi», ha detto Sam mentre ci entrava con la macchina. «Ma di notte circolano troppi balordi.» Parcheggia in un vicolo che c’è dietro.

Ha un allarme con due tastiere, una sulla porta principale, l’altra sulla porta della cucina. Io ho guardato dall’altra parte mentre lui schiacciava i tasti, così non ha pensato che avessi in mente qualcosa. «Non vedo l’ora di mettere giù la testa», ha detto e mi ha mostrato la mia stanza. Sul letto c’erano uno spazzolino nuovo, un tubetto di dentifricio e un bicchiere.

«Niente pigiama, Bill. Non so che taglia porti.» Sembrava imbarazzato, fermo sulla soglia, come se non volesse entrare.

«Grazie», gli ho detto io. «È fantastico, sul serio.»

Lui ha sbattuto i denti, facendo un rumore come se la dentiera non gli calzasse giusta. «Senti, voglio che tu sappia che non sono abituato ad avere ospiti. Non ne ho mai avuti prima.»

Non sapevo che cosa rispondere.

«Quello che intendo, Bill, è che non devi preoccuparti di cose strane. A me piacciono le donne. Resta qui abbastanza a lungo e lo vedrai da te.»

«Ti credo.»

«D’accordo. E ora è meglio che dormiamo un po’.»

La stanza è color verde chiaro e ci sono vecchi mobili scuri, una moquette grigia e due cornici appese storte. In una c’è una fotografia in bianco e nero di una donna con i capelli tirati su e un uomo con una lunga barba nera. L’altro è un dipinto che sembra ritagliato da una rivista e si vedono degli alberi. La stanza ha odore di vecchio e fa un po’ caldo.

Mi lavo i denti e mi guardo allo specchio. I graffi sulla faccia non vanno male, ma sento ancora dolore al petto, ho gli occhi rosa e i capelli che fanno schifo.

Mi spoglio, mi infilo sotto il lenzuolo in mutande e chiudo gli occhi. All’inizio tutto è tranquillo, poi sento della musica dalla stanza di Sam. Come una chitarra, ma più acuta. Un mandolino. Una band country che suonava al Sunnyside ne aveva uno.

Suona lo stesso pezzo non so quante volte, un pezzo triste e vecchio.

Poi smette e comincia a russare. Io penso a mamma. È tutto quello che ricordo fino al mattino.

Oggi è sabato e mi sveglio prima di lui e vado in soggiorno. Le tende sono accostate e in casa c’è buio. Scosto la tenda del soggiorno e vedo un paio di seggiole di metallo sulla veranda di Sam, poi un muro basso e delle case dall’altra parte della via pedonale. Il cielo sta diventando blu e ci sono dei gabbiani in volo. È strano, ma giurerei di sentire odore di salmastro attraverso il vetro della finestra.

Nel soggiorno ci sono più libri di quanti ne abbia mai visti tranne che in una biblioteca. Tre pareti sono piene di scaffali e non si sa dove mettere i piedi per tutte le riviste sparse per terra. In un angolo c’è un divano con sopra una coperta a uncinetto. Lì vicino ci sono il televisore e un leggio per spartiti con sopra una musica di un certo Smetana.

Mi siedo sul divano e viene su uno sbuffo di polvere. Niente mal di pancia mattutino. È la miglior dormita della mia vita e decido di ringraziarlo preparando la colazione.

In una scatola rimasta fuori trovo pane integrale e ne taglio quattro fette da tostare. C’è una macchina per il caffè, ma non so come si usa, così verso in due bicchieri del latte e del succo d’arancia e li sistemo sul tavolo, con tovaglioli di carta, forchette, coltelli, cucchiai. In frigorifero ci sono frutta e verdura, burro, della panna acida, uova e un grosso vaso con dentro una cosa argentea, sembra uscito da un laboratorio di scienze. Aringhe piccanti. Prendo le uova sperando che a Sam piacciano strapazzate.

Stanno friggendo quando lo sento tossire. Entra con addosso un accappatoio celeste, si strofina gli occhi e si spinge i denti. «Mi era parso di sentire qualcosa… Ehi, sei un gourmet?»

«Vanno bene strapazzate?»

Lui si gira dall’altra parte, si porta una mano alla bocca e tossisce di nuovo. «Scusa. Sì, strapazzate vanno benissimo. Di solito io non cucino il sabato. È il mio Sabbath. Io non sono molto religioso, ma di solito non cucino. Forse perché mia madre non lo faceva mai.»

«Mi spiace…»

«No, no, va benissimo, perché dovresti adeguarti anche tu?» Si avvicina, guarda nella padella. «L’odorino è buono. Mi piacerebbe una bella tazza… Sai fare il caffè?»

«No.»

Lui mi spiega come usare la macchina ed esce. Quando torna il caffè è versato e lui ha indossato un vestito marrone chiaro e una camicia bianca con il colletto aperto. Si è pettinato e sbarbato. Ormai le uova sono gelate.

«Bene, è ora di fare la pappa», esclama aprendo il tovagliolo di carta e posandoselo sulle ginocchia. «Bon appétit… che vuol dire ‘mangia’ in francese.» Assaggia le uova. «Ottime. Molto signore da parte tua, Bill. Forse c’è speranza per la nuova generazione.»

Finisce tutto quello che ha nel piatto, fa fuori due tazze di caffè e conclude con un sospirone. «Allora, ti spiego come funziona la mia giornata. Vado alla shul per le funzioni della domenica e dovrei tornare verso le undici, undici e mezzo, mezzogiorno al più tardi. Se vuoi uscire, non inserisco l’allarme.»

«No, resterò qui.»

«Sei sicuro?»

«Sì.» A un tratto sento di avere la voce tesa. «Leggerò.»

«Che cosa?»

«Ho visto che hai molti libri.»

Lui lancia un’occhiata al soggiorno. «Ti piace leggere, eh?»

«Moltissimo.»

«Lavori e leggi… Anch’io sono un lettore, Bill. Molto tempo fa volevo diventare avvocato. Quando ero ancora in Europa. Non avevamo professionisti in famiglia. Eravamo agricoltori, minatori, operai. Mio padre conosceva la Bibbia a memoria, ma non ci permisero di ricevere un’istruzione. Io ero deciso a farmela lo stesso, ma poi c’è stata la guerra… Goditi il libro. Non c’è niente in quelle pagine che non sia adatto a un ragazzo della tua età.»

Si pulisce le mani, porta il piatto al lavello e si dà un’occhiata nel piccolo specchio sopra il rubinetto. «Sicuro che vuoi che lasci l’allarme?»

«Sì.»

«Mi spiacerebbe solo che ti sentissi come prigioniero.» Si tocca il colletto, lo liscia, si dà un paio di colpetti ai capelli. «Ecco qui, pronto per Dio. Sperando che Lui sia pronto per me. Se ti viene appetito, mangia. Farò anche provviste. Ci vediamo alle undici, undici e mezzo.»


È di ritorno alle 11.27. Lascia la Lincoln dietro la casa e scende in fretta con un involto di carta di alluminio. Apre l’altro sportello e scende una donna anziana magra, con i capelli rossi. Parlano per un po’, poi scompaiono.

Lui entra in casa quindici minuti dopo. «Ho accompagnato a casa un’amica.» Posa l’involto sul tavolo e lo apre. Biscotti con sopra una spruzzata di zuccherini colorati. «Eccoti qui.»

Io ne assaggio uno. «Grazie.»

«Di niente. Senti, apprezzo le buone maniere, ma non è necessario che mi ringrazi per ogni piccola cosa. Altrimenti facciamo la fine di Alphonse e Gaston che erano due francesi molto, molto educati.» Si porta una mano dietro la schiena e si appoggia l’altra sul ventre e si inchina.

«Prima voi… no, voi, per primo. È una vecchia storiella. Sono così gentili, che restano fermi tutto il giorno sul ciglio della strada senza mai attraversarla.»

Sorrido.

«Allora che cosa hai scelto di leggere?» mi chiede.

«Riviste.»

Quasi tutti i suoi libri sono romanzi, le poche cose realistiche che ho trovato erano soprattutto cataloghi di lavandini e servizi igienici. Ma le riviste erano interessanti, roba d’annata, anni Cinquanta e Sessanta. Life, Look, Saturday Evening Post, Time, Popular Mechanics. Eisenhower e altri presidenti di quei tempi, articoli sulla guerra di Corea, divi del cinema, animali allo zoo, famiglie dall’aria felice, pubblicità incredibili.

«Fame?»

«No grazie.»

«Che cosa hai mangiato?»

«Il biscotto.»

«Non fare il furbo.»

«Ho bevuto del latte.»

«Ah sì?» Va al frigorifero e prende il vaso delle aringhe. Ci sono pezzi di pesce sospesi in un liquido opaco. «Queste sono proteine, Bill.»

Scuoto la testa.

«È pesce. Non ti piace il pesce?»

«Non molto.»

Lui apre il vaso, pesca un pezzo, lo mangia, apre di nuovo il frigorifero e guarda dentro. «Insalata?»

«Sto bene così, signor Ganzer, davvero.»

Ripone il vaso delle aringhe e si toglie la giacca. «Più tardi esco di nuovo a comprare un paio di bistecche. Non sarai uno di quei vegetariani, spero.»

«La carne mi piace.»

«Ma che ospite facile. Giochi a scacchi?»

«No.»

«Allora impara.»


È praticamente come la guerra e mi piace. Dopo sei partite lo batto e lui dice: «Molto bene», ma non sono sicuro che sia contento.

«Un’altra, signor Ganzer?»

«No, ora voglio riposare.» Allunga la mano per toccarmi la testa, ma ci ripensa. «Hai un bel cervellino, Bill.»

Mentre lui dorme io leggo, messo comodo sul divano pieno di polvere con la coperta all’uncinetto sulle gambe. Ogni tanto mi aizo, guardo fuori, vedo un cielo bellissimo. Ma non mi dispiace essere in casa.

Si sveglia alle sei e un quarto, fa la doccia. Quando esce dalla sua stanza, indossa un altro abito, marrone, camicia blu, scarpe color cuoio.

«Vado a prendere le bistecche», annuncia. «No, un momento…» Apre lo sportello del congelatore sopra il frigorifero e tira fuori una confezione di pollo. «Questo va bene?»

«Sì, signor Ganzer, ma non ho molta fame.»

«Come puoi non aver fame?»

«Non lo so, non ne ho.»

«Non sei abituato a mangiare molto, vero?»

«Me la cavo.»

«Da quanto tempo sei in giro da solo?»

«Da un po’.»

«Va bene, va bene, non voglio fare l’impiccione. Lo faccio scongelare e lo cucino arrosto. Così è più sano.»

Alle sette e venti il pollo è pronto e io mangio più di quanto avrei pensato. Poi noto che Sam non ha praticamente toccato la coscia che si è messo nel piatto.

«Guardi che ha bisogno di proteine, signor Ganzer.»

«Molto divertente», dice lui. Però sorride. «Da questo lato per questa sera io sono già a posto. Ho un appuntamento per cena. Nessun problema restare solo a casa?»

«No. Sono abituato.»

Lui aggrotta la fronte, posa la coscia sul mio piatto, si alza. «Non so a che ora torno. Probabilmente alle dieci, dieci e mezzo. Di solito sono io a fare gli onori di casa, ma ho pensato che non ti andava di vedere altra gente. Giusto?»

«La casa è sua. Io posso restare in camera.»

«Che cosa? Nascosto come… No, vado io. Se hai bisogno di me, sono sei case più giù, quella bianca con i bordi blu. Il nome è Kleinman. Signora Kleinman.»

«Si diverta», gli dico.

Lui si colorisce un po’. «Senti, Bill, ci ho pensato. Quei venticinquemila. Se ti spettano di diritto, è giusto che li pretendi. Sono molti soldi per chiunque. Io posso assicurarmi che nessuno cerchi di soffiarteli. Qui di fronte abita una persona che conosco, una volta era avvocato. Un comunista, ma in gamba. Conosce vie maestre e scorciatoie. Non ti prenderebbe un centesimo e potrebbe garantire che tu sia protetto…»

«Nessuno può proteggermi.»

«Perché dici così?»

«Perché nessuno l’ha mai fatto.»

«Ma, guarda…»

«No», dico io. «È impensabile che permettano a un bambino di tenere per sé tutto quel denaro. E io non li posso aiutare comunque, non ho visto in faccia quell’uomo. Ho visto solo una targa…»

«Una targa? Bill, potrebbe essere un elemento molto prezioso. Hanno dei sistemi per risalire al proprietario di un veicolo partendo dalla targa.»

«No!» grido. «Nessuno ha mai fatto niente per me e a me non importa niente di nessuno. E se secondo lei questo fa di me un cattivo cittadino e non mi vuole in casa sua, mi sta bene, me ne vado!»

Mi alzo e corro alla porta. Lui mi afferra per il braccio. «Ehi, ehi, calma, figliolo, non è il caso…»

«Mi lasci andare…»

Ubbidisce. Arrivo alla porta, vedo la spia rossa dell’allarme, mi fermo. Ecco che mi ricomincia il mal di pancia.

«Per piacere, Bill, rilassati.»

«Sono rilassato.» Ma è una bugia. Ho il respiro affannato e una tensione davvero terribile nel petto.

«Senti, ti chiedo scusa», dice lui. «Lasciamo perdere, avevo solo pensato… Tu sei evidentemente una brava persona e alle volte quando una brava persona non fa la cosa giusta, si sente… ah! Che cosa diavolo mi viene in mente di pontificare in questo modo? Tu sai che cosa devi fare.»

«Io non so niente», mormoro.

«In che senso?»

«Ogni volta che cerco di imparare, qualcosa si mette in mezzo. Come è successo a lei con la guerra.»

«Ma guarda tu stesso, ce la stai facendo. Come ce l’ho fatta io.»

Ho di nuovo voglia di piangere, ma non lo faccio, assolutamente non se ne parla! Mi vengono fuori parole a mitraglia: «Non so che cosa devo fare signor Ganzer. Forse dovrei chiamare la polizia. Forse lo farò da un telefono pubblico, gli dico la targa e riappendo».

«Ma se fai così, come fai a incassare la ricompensa?»

«Non ci voglio pensare, alla ricompensa, non mi darebbero mai quei soldi. E anche se lo facessero, mamma lo scoprirebbe e poi Moron… che sarebbe il tizio che vive con lei. È per lui che sono scappato. I soldi finirebbero a lui, mi creda, a me non resterebbe nemmeno un centesimo e mi ritroverei al punto di partenza.»

«Moron? Come ritardato?» Si batte l’indice sulla fronte.

Io rido. «Sì.»

Ride anche lui. Io rido più forte. Non sono veramente felice, ma è un modo per sfogarsi.

«Un ragazzino sveglio come te e un deficiente», commenta lui. «Capisco che qualche problema era inevitabile… Va bene, ti do il codice dell’allarme. Giusto nel caso tu voglia uscire per una boccata d’aria. Uno uno venticinque. Pensa al primo gennaio millenovecentoventicinque. La mia data di nascita. Sono un bimbo di Capodanno.»

«Non uscirò.»

«Non si sa mai.» Schiaccia i numeri, si accende la spia verde e apre la porta. «Rilassati, riposati… prova le aringhe.»

«Fossi matto», gli rispondo e lui esce sorridendo.

La scacchiera è rimasta fuori. Credo che sperimenterò mosse diverse. Guardando la situazione da entrambi i punti di vista.

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