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Un cielo pieno di stelle. L’oceano è più rumoroso degli animali allo zoo.

Sono in spiaggia, sotto il molo, c’è odore di catrame e sale, freddo, anche sotto il foglio di plastica nera.

Qui attorno la sabbia è bagnata, ma ho trovato un posticino asciutto vicino a questi grossi pali che reggono il molo. Non riesco a dormire, guardo e ascolto le onde che vanno e vengono, ma non mi sento stanco. L’oceano è nero come la plastica, con una striscia obliqua di punticini di luna. Fa freddo, molto più freddo che al parco. Se resto qui, avrò bisogno di una coperta come si deve.

Prima è passato sulla spiaggia un tipo strano, camminava vicino all’acqua. Un tipo tutto solo sulla spiaggia deserta e per quel modo che aveva di camminare, battendo le mani, saltellando di tanto in tanto, ho capito che era matto.

Quando spunterà il sole dovrò andarmene.

Due notti fa ho visto PLYR uccidere quella donna e ora sono qui. Strano. E non ci ho nemmeno provato. È successo.

Andavo a zigzag tra il Sunset e le vie laterali, passando davanti a tanti ristoranti che avevo il naso pieno di odori di cibo, con quelli in giacca rossa che parcheggiavano le macchine, la gente che rideva. Avevo la pancia ancora piena, eppure avevo anche l’acquolina in bocca.

Non sapevo dove sarei finito, sapevo solo che non potevo restare fermo. Sono arrivato in una parte del Sunset dov’era tutto più elegante, la gente era vestita meglio, c’erano cartelloni con la pubblicità di film e vestiti e liquori. Poi altri locali, altri tipi grandi e grossi davanti alla porta, con le braccia incrociate sul petto.

Il posto dove è successo si chiamava A-Void, su un angolo buio vicino a un negozio di liquori, verniciato di nero con tutti questi sassi neri incollati sulla facciata. Il ciccione che c’era davanti fumava e sembrava annoiato. Nessuno cercava di entrare. Sull’insegna di plastica sopra la porta erano scritti i nomi delle band che ci suonavano: Meat Members, Elvis Orgasm, Stick Figures.

Il negozio di liquori era aperto e alla cassa sedeva un uomo con il turbante. Ho pensato di comperarmi della gomma da masticare, prendere qualcos’altro, ma quando ho varcato la soglia lui mi ha guardato con sospetto e allora me ne sono andato. Proprio in quel momento dall’A-Void è uscito un tizio alto e magro con lunghi capelli neri e crespi e un sacco di brufoli. È corso dietro a un furgone parcheggiato all’angolo, ha aperto lo sportello e ha messo dentro i tamburi che trasportava. Il furgone era pieno di botte e graffi, con la fiancata tappezzata di adesivi. Non ha chiuso a chiave.

Ha fatto altri due viaggi, poi è tornato nel locale e ci è rimasto.

Sempre senza chiudere a chiave il furgone.

Intanto era entrato anche il ciccione.

Io mi sono avvicinato e ho guardato nel finestrino del passeggero. C’era solo il sedile anteriore, tutto il resto serviva per il carico.

Ho aperto la portiera. Non è partito nessun allarme.

Sul sedile c’erano solo immondizie, cartine di caramelle, lattine e bottiglie vuote, pezzi di carta. Forse la radio, se fossi riuscito a rivenderla… Come si fa a staccarne una?

Poi ho sentito delle voci e ho visto quello smilzo sull’angolo, con la schiena girata verso il furgone. Parlava a una ragazza piccolina con i capelli gialli e una striscia rosa nel mezzo. Se avesse guardato dalla mia parte forse mi avrebbe visto, ma stava attenta solo a lui. Mi è sembrato che litigassero. Poi lui si è girato.

Troppo tardi per saltare giù.

Sono entrato del tutto, ho chiuso la portiera, mi sono buttato di dietro e mi sono nascosto dietro i tamburi. Erano coperti per metà da questo telo di plastica nera e mi ci sono infilato sotto, picchiando contro qualcosa di metallico. Una botta dolorosa, ho dovuto morsicarmi il labbro per non gridare.

La plastica era fredda e puzzava come di candeggina.

Si è aperto di nuovo lo sportello posteriore, il furgone ha traballato e mi è piovuto addosso qualcosa.

Un tonfo. Un altro tonfo.

Sento la voce della ragazza, davanti. «Siete stati forti.»

«Cazzate.»

«No, Wim, dico sul serio.»

«Abbiamo fatto schifo e tutti sanno che abbiamo fatto schifo, quindi lasciami in pace. Mi hai preso la giacca?»

«Oh… scusa. Vado indietro a prenderla.»

«Merda! Muoviti!»

La portiera che si riapre e un altro tonfo.

Tosse. «Razza di stronza…» Si è acceso il motore e il fondo sotto di me ha cominciato a vibrare e io ho cercato qualcosa dove aggrapparmi per non rotolare in giro, ma i tamburi erano rotondi e non volevo fare rumore e così mi sono appiattito come un ragno.

Lui ha acceso la radio. È andato in giro per un po’ di stazioni, ha detto: «Solo merdate», l’ha spenta.

Fruscii, poi uno scatto, e sento un odore che conosco.

Erba. Sul trailer mi addormentavo con il naso pieno di quell’odore chiedendomi se mi avrebbe procurato danni cerebrali.

Tonfo. «Ecco qui, caro.»

«Sai che cos’è questa roba? Montone della Mongolia o del Tibet o qualche altro cazzo di posto del genere. E queste borchie qui, le vedi, sono martellate dentro a mano da contadini ciechi che dicono non so che preghiere speciali. Ho dato tutti e due gli occhi per questa giacca e tu me la lasci là dentro! Merda!»

«Scusa, Wim.»

Si sono messi a fumare. Non parlavano più. Il motore era acceso e io schiacciavo le dita sul fondo cercando di non muovermi e di non respirare, chiedendomi dove sarei andato a finire. Impossibile scendere, perché i tamburi bloccavano lo sportello.

Almeno faceva caldo.

«Fammi fare ancora un tiro», ha detto lei. «Ah, è proprio buona.»

«Ehi, non farci un pompino. Passa qui.»

«Dove vuoi andare, Wim?»

«Dove? In Europa, dove cazzo credi? A casa, ho bisogno di tirare il fiato.»

«Non vuoi andare al Wiskey

«Perché cazzo dovrei andarci?»

«Avevi detto… ricordi?»

«Cosa?»

«Prima di partire si è parlato, sai, che magari dopo si faceva un salto al Whiskey, forse ci trovavi certa gente che conosci, c’era da fare un po’ di musica…»

«Storia vecchia, adesso non vale più. Gente che conosco… Bella roba. Conoscere è una cazzata. Il gioco vero si chiama fare e questa sera abbiamo fatto schifo. Dio, mi viene male a pensarci. Skootch era una pena, roba da encefalogramma piatto, e quello là, quello seduto in seconda fila, ci metto la mano sul fuoco che era di Geffen e se n’è andato quasi subito. Porca merda, va a finire che crepo senza essere diventato famoso!»

«No, vedrai che diventerai…»

«Piantala!»

Il furgone si è mosso, per un po’ abbiamo viaggiato in direzione sud, poi abbiamo girato a destra, vale a dire di nuovo a ovest. Wim guidava da arrabbiato, accelerava, sterzava all’improvviso, frenava di botto.

È passato un po’ prima che la ragazza parlasse di nuovo. «Ehi, Wim?»

Grugnito.

«Wim? Che cos’hai detto prima?»

«Cioè?»

«Di non fare un pompino allo spinello? Ma ci sono altre cose più adatte, giusto?» Una risatina.

«Ah, sicuro, come no, ho avuto una serata trionfale e adesso ho una gran voglia di fare il romantico. Ma vedi di chiudere il becco e lasciami guidare in pace. Da non crederci, come abbiamo suonato male!»

Dopodiché, non ha più parlato nessuno.

Io ho cercato di star attento alle curve, mi sono disegnato una mappa mentale, ma a forza di girare ho perso il filo.

A un certo punto si è fermato e ho pensato: sono fritto. Adesso prende i tamburi, mi trova e sfoga su di me il suo cattivo umore.

Ho frugato sotto il telo cercando qualcosa per difendermi, ho toccato metallo freddo, ma non sono riuscito a staccarlo. Fritto e trifolato.

Sportello che si apre. Tonfo. Passi. Sempre più lontani. Silenzio.

Sono uscito da sotto la plastica. Il furgone puzzava come uno spinello enorme.

Era parcheggiato in una via tranquilla piena di abitazioni.

Ho scavalcato lo schienale, ho abbassato il finestrino. Poteva essere dovunque. Forse mi aveva persino riportato a Hollywood. L’aria fuori era fredda, così sono tornato dietro, sono riuscito a districare la plastica nera, l’ho ripiegata, me la sono infilata sotto il braccio, ho scavalcato di nuovo lo schienale e sono sceso.

Un odore nuovo.

Sale. Un sale pescioso.

Una volta, quand’ero piccolo, mamma mi ha portato alla spiaggia, una lunga gita in autobus da Watson. Non so bene che spiaggia fosse e non ci siamo più tornati, ma la sabbia era fine e calda e mamma ha comprato un gelato per ciascuno. Faceva caldo, si stava bene, in mezzo a un sacco di gente, e ci siamo rimasti per tutto il giorno, io a scavare buche nella sabbia, mamma seduta lì vicino in bikini ad ascoltare la radio. Non aveva portato nessuna crema e ci siamo scottati tutt’e due. Io ho la pelle più chiara di lei e mi sono bruciato di più, mi sono venute le bolle, era come se fossi finito nel fuoco. Per tutto il viaggio di ritorno sull’autobus non ho fatto che gridare, con la mamma che mi pregava di stare buono, ma senza vera intenzione, perché era tutta rosa come una gomma da masticare, sapeva che mi faceva male davvero.

Sul trailer ha cercato di darmi del vino, ma io non l’ho voluto, l’odore non mi piaceva e anche se non potevo avere più di quattro o cinque anni, l’avevo vista ubriaca, avevo paura dell’alcol. Lei ha cercato di costringermi, mi ha schiacciato la bottiglia sulle labbra e mi ha tenuto giù una mano, ma io continuavo a girare la testa, facevo finta di avere la bocca incollata, finché finalmente mi ha lasciato stare e allora mi sono disteso, con il corpo che mi andava arrosto dalla testa ai piedi, mentre lei finiva il vino da sola.

Quando ho sentito l’odore di sale, mi sono ricordato questa scena.

E poi ancora, la mamma seduta su un asciugamano, il bikini nero. Forse sperava che qualche ragazzo la notasse, ma nessuno l’ha fatto, probabilmente per colpa mia.

Dunque eccomi qui. In spiaggia.

Nessun altro posto dove andare, dopo di qui.

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