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Ho gli occhi chiusi e sto pensando quando mi sento qualcosa addosso. Sono formiche, mi camminano sopra, forse hanno sentito l’odore degli Honey Nut. Salto in piedi e le sbatto via, calpesto tutte quelle che posso. Se qualcuno mi sta guardando, penserà che sono impazzito.

Dopo quello che ho visto non mi sento tranquillo nemmeno al parco, ma non ho alternative. Per un secondo m’immagino che mi trovi, che mi insegua e mi blocchi da qualche parte. Ha il coltello, lo stesso, mi afferra e me lo pianta dentro. Il cuore balza incontro alla lama.

Perché mi viene un’idea così?

Sono le 11.34, devo smettere di pensarci. Apro il libro di algebra, risolvo equazioni nella mente. Cercherò di mangiare, magari un pezzo di carne secca, e all’una scenderò a quel cancello nel recinto, vediamo se il lucchetto è sempre aperto.


Ce l’ho fatta. Superquiete su in Africa. Cinque dollari in tasca. Il resto dei miei soldi avvolti nella plastica e sepolti.

Fa caldo, l’estate arriva presto. Tanti animali assonnati, quasi tutti nascosti nelle loro grotte. Non c’è molta gente, qualche turista, soprattutto giapponesi, e mamme giovani con neonati in carrozzina. Ho con me un quaderno e una matita per dare l’impressione di essere qui per un compito che mi hanno dato a scuola. Non ho un odore troppo cattivo all’aperto. Nessuno mi guarda in modo strano e c’è qualcuno che addirittura mi sorride, un paio di turisti, un uomo e una donna, americani, anziani, un po’ sghembi, con un sacco di macchine fotografiche e una mappa dello zoo, dove sembra che non si raccapezzino. Sarà che gli ricordo qualche loro nipotino o che so io.

Io continuo a risalire l’Africa, quasi tutte le bestie dormono, ma non m’importa, è bello camminare senza esserci costretti. Un rino è fuori, ma mi guarda storto, così vado dove ci sono i gorilla.

Quando ci arrivo, è una scena.

Ci sono due giovani mamme dai gorilla, con l’aria disgustata, una si dà manate sulla camicetta e strilla: «Oh, che schifo, che schifo!» e l’altra sta tirando indietro in fretta e furia il suo passeggino. Poi se la battono a tutta birra verso il Nord America.

Vedo subito perché.

Merda. Per terra, dappertutto vicino al recinto dei gorilla.

Ce ne sono cinque fuori, quattro che se ne stanno seduti a grattarsi e a sonnecchiare e uno in piedi come fanno loro, tutto curvo con le mani che quasi toccano terra. Una femmina. I maschi hanno teste gigadontiche e una striscia argentata giù per la schiena.

La femmina si mette a passeggiare, si ferma a controllare che cosa fanno gli altri gorilla, si gratta, fa qualche altro passo. Poi si china e raccoglie un gigantesco pezzo di merda.

E lo scaglia.

Mi passa vicino alla testa, ma mi manca e finisce per terra, molto vicino a me. Esplode in una polvere puzzolente. Un po’ mi finisce sulle scarpe. Le scrollo per pulirle e vedo volare un altro pezzo. E poi un altro.

«Idiota!» mi viene da urlare. Non c’è nessuno.

La gorilla incrocia le braccia sul petto e mi guarda e giuro che sorride, come se fosse non so quale spassosissimo scherzo da gorilla.

Poi mi punta il dito contro. Poi raccoglie un altro pezzo.

Me ne vado. Il mondo è impazzito.


Compro una limonata a un distributore automatico e me ne vado in giro bevendo e sperando che tutta quella polvere di merda venga via, perché sono veramente stufo di cose schifose.

Forse andrò a visitare i rettili, là dentro c’è fresco e penombra e sarebbe bello se vedessi un altro serpente reale con due teste.

Per la via incrocio gli stessi due nonnetti che stanno uscendo e mi sorridono di nuovo, sempre con quell’aria confusa. Passo davanti a boa e anaconda, vipere e lucertole, serpenti a sonagli, aspidi e cobra. Mi trattengo un po’ a guardare un pitone albino, enorme e grasso, con squame bianche, un po’ rosa, e strani occhi rossi.

Rivedrò la sua brutta faccia pallida nei miei sogni questa notte?

Non sarebbe un male se riuscissi a convincerlo a mangiarsi PLYR 1.

Mentre sono lì a guardare mi vedo come il Grande Ammaestratore di Serpenti, che comunica con i rettili tramite la sua forza mentale. Chiamo il Pitone Albino a stringersi intorno a PLYR 1, così me lo schiaccia, me lo spreme come succo d’arancia.

Sapere che cosa sta per succedere. È peggio che morire. Sapere.


Un po’ più tardi, vicino allo zoo, accanto a un campo giochi che dev’essere per i bambini più piccoli che si stufano degli animali, trovo un orto circondato da una corda.

Mais e fagioli e pomodori e peperoni. Il cartello dice che è per le bestie, così hanno cibo fresco. Ho visto gli scimpanzé mangiare pannocchie, quindi forse lo fanno anche i gorilla, e allora mi viene un’idea.

Anche a me piace il mais, le pannocchie dolci fatte lesse, però a casa non lo si mangiava mai. Una volta a scuola avevano organizzato un picnic per il Ringraziamento in cortile, tacchino e mais e patate dolci con marshmallow per chi aveva da pagare. Tutto impilato su tavoloni lunghi, con le mamme in grembiule a distribuire. Io ci sono andato a dare una occhiata anche se non avevo i soldi per comperare qualcosa. Mi sono trattenuto fino alla fine, ho trovato un paio di monetine da un quarto e le ho usate per giocare alle macchinette, ma quanto a mangiare era fuori questione, ci volevano cinque dollari.

Una delle signore ai tavoli, però, mi ha visto che guardavo le pannocchie e me ne ha data una intera, color giallo margherita e luccicante di burro, con una coscia di tacchino che ci avrebbe mangiato una famiglia intera. Me ne sono andato sotto un albero ed è stata la più bella festa del Ringraziamento che ho mai avuto.

Ora mi avvicino all’orto e guardo in giro.

Via libera.

Scavalco la corda, vado diritto al mais, stacco tre pannocchie e me le ficco in tasca. Sporgono, così le nascondo sotto la maglietta, riscavalco come se nulla fosse e mi allontano adagio finché trovo un bagno.

Entro in uno dei box, chiudo la porta, mi siedo sul coperchio e tiro fuori le pannocchie, le sbuccio togliendo le foglie e quella barbetta e mi chiedo che sapore avranno i chicchi crudi.

Buoni. Duri, da sgranocchiare, niente di così delicato come il mais bollito con il burro, ma hanno il sapore giusto, dolce. Faccio fuori due pannocchie in fretta, la terza più lentamente, masticando molto e mandando giù tutto mentre leggo le parolacce che ci sono scritte sui muri. Quando ho finito lecco tutto il sapore di mais dai torsoli, li lascio in un angolo del box, faccio pipì e uso il lavandino che c’è fuori per lavarmi faccia e mani. Poi mi arrotolo i jeans e mi lavo un po’ anche le gambe.

Ho mal di pancia, ma diverso dal solito.

Troppo pieno. Ho fatto indigestione.

Ora il tuo pranzo è mio, gorilla.

La vendetta è dolce come il mais!

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