Ormai devo essere quasi arrivato. È uscito il sole e mi sento allo scoperto, come un bersaglio in un videogame, qualcosa di piccolo che viene mangiato.
Posso camminare per sempre, se devo. A Los Angeles non ho fatto altro che camminare.
L’autobus mi ha lasciato in una stazione piena di gente e rumore. Fuori il cielo era di uno strano color grigio marroncino e l’aria aveva un odore aspro. Non sapevo dove andare. Da una parte c’erano, non so, fabbriche, tralicci, camion che andavano e venivano. La gente andava più dall’altra parte, così sono andato anch’io con loro.
Molto rumore, tutti che guardavano diritto davanti. Tra un isolato e l’altro c’erano vicoli pieni di bidoni delle immondizie con tizi dall’aria strana che stavano seduti contro il muro. Certi mi hanno guardato passare con occhi freddi. Ho camminato per tre isolati prima di accorgermi che uno di loro mi seguiva, uno con un’aria proprio da matto e la testa avvolta negli stracci.
Lui ha visto che mi ero accorto e ha accelerato il passo. Io mi sono messo a correre e mi sono infilato nella folla, sentivo gli ottantasei dollari che avevo negli slip che saltavano di qua e di là, ma mi sono ben guardato dal toccarli o abbassare gli occhi. Erano tutti più alti di me e non riuscivo a vedere molto lontano. Continuavo a spingere, dicendo scusa a tutti, e finalmente, due isolati più avanti, il tizio ha rinunciato ed è tornato indietro. Avevo il cuore che correva a tutta birra e la bocca secca. Il marciapiede era sempre più pieno di gente, soprattutto messicani e qualche cinese. C’erano vari ristoranti con il nome scritto in spagnolo e in un cinema enorme, con i ricci dorati sopra l’insegna, davano un film che s’intitolava qualcosa come Mi Vida, Mi Amor. C’erano bancarelle dove vendevano gelati alla frutta e churro e hot-dog e allora la bocca mi si è riempita di saliva. Ho cominciato a chiedermi se stavo sognando o se ero in qualche paese straniero.
Ho continuato a camminare fino a una strada dove le case erano più pulite e più nuove. Quella più bella si chiamava mi pare The College Club, con davanti le bandiere degli Stati Uniti e della California e un tizio con la faccia rosa e una divisa grigia e il cappello in testa, con le braccia incrociate sul petto. Quando gli sono passato davanti ha guardato in giù lungo il naso, come se avessi scorreggiato o fatto qualcos’altro che non si deve. Poi si è fermata una lunga macchina tutta nera e all’improvviso è diventato un servitore, che correva ad aprire la portiera e diceva: «Come sta oggi, signore?» a un tizio con i capelli bianchi e il vestito blu.
Sono arrivato a un giardino che mi è sembrato carino, con una fontana e delle statue colorate, ma quando mi sono avvicinato ho visto che le panchine erano occupate da altri tipi strani. Lì accanto c’era un posto che si chiamava The Childrens Museum, ma senza bambini che ci entravano. Io ero stanco, avevo fame e sete, non volevo spendere altri soldi Tampax prima di aver preparato un piano.
Mi sono seduto su un angolo d’erba e mi sono messo a pensare.
Ero andato a L.A. perché era la città vera più vicina che conoscevo ma i soli posti di quella zona di cui avevo sentito erano Anaheim, dove c’è Disneyland, Beverly Hills, Hollywood e Malibu. Anaheim era probabilmente distante e poi lì che cos’altro c’era oltre a Disneyland? Su Hollywood avevo visto uno show in TV dove dicevano che i bambini continuavano ad andarci a caccia di divi del cinema e finivano nei guai. Beverly Hills era piena di gente ricca e dal modo in cui mi aveva guardato quello con la divisa grigia avevo capito che non era un posto sicuro.
Restava Malibu, ma lì era tutta spiaggia, nessun posto dove nascondersi.
Forse qualcosa vicino a Hollywood poteva andare. Io non ero come gli altri bambini, quelli che pensano che la vita è come un film. Io volevo solo essere lasciato in pace, senza che nessuno mi mettesse il pisello dentro un tronchesino.
Sono rimasto seduto lì non so quanto a pensare che ero stato matto a scappare. Dove sarei andato a vivere? Che cosa avrei mangiato, dove avrei dormito? In quel momento il tempo era bello, ma poi, in inverno?
Troppo tardi per tornare indietro. Mamma avrebbe scoperto dei soldi e per lei ormai ero un ladro. E Moron… la pancia ha cominciato a farmi un male d’inferno. Mi è venuta l’idea che forse qualcuno mi stesse guardando, ma quando ho controllato non ho visto nessuno. Avevo di nuovo le labbra come carta vetrata. Mi sentivo secchi persino gli occhi. Mi faceva male sbattere le palpebre.
Mi sono alzato pensando di mettermi a camminare e basta. Poi ho visto due che attraversavano il parco tenendosi per mano, un lui e una lei, sui venti, venticinque, in jeans, con i capelli lunghi, belli tranquilli.
Ho detto: «Scusate» e ho sorriso, ho chiesto dov’era Hollywood e dov’era Malibu, tanto per non tradirmi troppo.
«Malibu, eh», ha fatto lui. Aveva una barbetta tutta ricciuta e i capelli più lunghi di quelli di lei.
«I miei sono là dentro», gli ho spiegato indicando il museo. «Ci hanno portato il mio fratellino, ma secondo me è una barba. Mi hanno promesso che poi mi portano alla spiaggia e a Hollywood, se li troviamo.»
«Tu di dove sei?» ha chiesto lei.
«Kinderhook, New York.» La prima cosa che mi è venuta.
«Oh. Be’, Hollywood sarà a cinque o sei miglia da quella parte, a ovest, e la spiaggia è nella stessa direzione, più avanti. Altre quindici miglia. Kinderhook, hai detto? Che cos’è, un posto piccolo?»
«Già.» Non ne avevo idea. Sapevo solo che ci era nato Martin Van Buren.
«Sei di campagna?»
«Non proprio, viviamo in una casa.»
«Ah.» Ha sorriso di nuovo, più di prima, e ha guardato il suo lui. Sembrava annoiato. «Be’, guarda che devi dire ai tuoi che Hollywood è un posto strano, pieno di fuori di testa, bisogna starci attenti. Di giorno se sei con loro va anche bene, ma di notte no. Giusto, Chuck?»
«Sì», ha confermato Chuck, toccandosi la barbetta. «Se ci vai, da’ un’occhiata al Museo delle Cere sull’Hollywood Boulevard, ragazzino. È forte. E il Mann’s Chinese Theatre. Ne hai mai sentito parlare?»
«Certo», ho risposto. «È dove i divi del cinema mettono le mani e i piedi nel cemento.»
«Già», ha riso lui. «E la testa in un tombino.»
Poi se ne sono andati via ridendo.
Sul primo autobus dove sono salito, il guidatore mi ha detto che avevo bisogno dei soldi precisi del biglietto, così ho dovuto scendere e comperare un cono al lime per procurarmi delle monetine. Mi è andata anche bene, perché mi è passata la sete e mi è rimasto un sapore dolce in bocca. Mezz’ora dopo è arrivato un altro autobus e avevo le monete giuste, come uno del posto.
Avevo fatto un sacco di fermate e il traffico era così lento che quando il conducente ha gridato: «Hollywood Boulevard», il cielo dietro i vetri antiriflesso dei finestrini era diventato grigio e rosa.
Non ero in un posto molto diverso da quello da cui arrivavo, vecchi palazzi con cinemini e negozietti. Stesso baccano, anche. Ondate di rumore che non finivano mai. Watson ha i suoi rumori, abbaiare di cani, il rombo dei camion sulla statale, qualcuno che grida quando si arrabbia, ma sono rumori che si distinguono, che si riconoscono. Qui a L.A. è tutto un gran calderone di rumore.
Al parcheggio dei trailer di notte potevo andare in giro a guardare dai finestrini. Ho persino visto gente fare sesso, non solo i giovani, ma anche i vecchi, con i capelli bianchi e la pelle molle, li ho visti muoversi sotto la coperta con gli occhi chiusi e la bocca aperta, aggrappati uno all’altro come se stessero affogando. Conoscevo dei posti negli aranceti dove c’era quasi silenzio assoluto.
Hollywood non mi sembrava un posto dove potevo trovare silenzio, ma ormai c’ero.
Ho camminato lungo l’Hollywood Boulevard attento ai fuori di testa, come mi aveva messo in guardia Chuck, senza sapere bene chi erano. Ho visto un donnone alto e grosso con mani enormi e ho capito che era un uomo e di sicuro era di quelli che diceva Chuck, teenager con i capelli come una cresta e rossetto nero, altri ubriachi, tizi che spingevano carrelli del supermercato, gente nera, gente marrone, cinesi, di tutto. I ristoranti vendevano cose che non avevo mai sentito nominare, come gyro e shwarma e oki-dog. I negozi vendevano vestiti, costumi e maschere, souvenir, ghetto-blaster, biancheria per ragazze tutta piena di fronzoli.
Un mucchio di bar. Davanti a uno che si chiamava The Cave c’era una fila di Harley e i tizi che entravano e uscivano erano grossi e brutti, vestiti come Moron, e a vederli mi è venuto il bruciore allo stomaco. Lì davanti sono passato molto svelto.
Ho visto una bancarella di hamburger che mi sembrava normale ma quello che c’era dietro era cinese e non ha alzato gli occhi quando mi sono fermato. Una mano continuava a friggere carne e la faccia era quasi tutta nascosta da fumo e vapore.
Due dollari e quarantadue per un burger. Non potevo spendere niente prima di avere un piano, ma sono riuscito a fregare alcune bustine di ketchup. Mi sono infilato dietro una casa, le ho aperte e ho succhiato il ketchup, poi ho ripreso a camminare fino a una strada che si chiama Western Avenue e ho svoltato a destra perché ho visto delle montagne in lontananza.
Per arrivarci ho dovuto passare davanti a un cinema porno con XXXX dappertutto e manifesti di donne bionde con grandi bocche aperte, poi certe case sporche da far schifo, con le assi sulle finestre. Ho visto donne in short cortissimi parlare ai telefoni pubblici e scambiarsi sigarette e tizi lì attorno che fumavano aspettando. Le montagne erano belle e ormai il sole ci era finito dietro e c’era un bagliore giallo arancio che si apriva sopra le cime, come un cappello di rame fuso.
Un isolato più avanti ho dovuto attraversare la strada perché c’erano dei ragazzi che ridevano e mi puntavano il dito addosso. Sono passato davanti a un altro vicolo. Lì non c’erano strani individui ubriachi, solo molti cassonetti e le porte di servizio di negozi e ristoranti. Da un posto che si chiamava La Fiesta è uscito un grassone tutto sudato con un grembiule bianco pieno di macchie. Portava un carico di involti di plastica, era pane avvolto nella plastica. Ha buttato tutto in un cassonetto ed è tornato dentro. Ho aspettato per vedere se usciva ancora, mi sono guardato intorno per essere sicuro che nessuno si era accorto di me e sono andato al cassonetto. Per guardarci dentro ho dovuto montare su una scatola di cartone che da un momento all’altro poteva sfondarsi sotto il mio peso. E ho dovuto continuare a scacciare le mosche. L’odore lassù era terribile. Il pane era finito sopra a un mucchio di verdure mezze marce e un po’ annerite, carta bagnata, resti di carne e ossa e grasso bianco crudo. La carne era tutta un formicolare di piccoli vermi bianchi e puzzava peggio di un cane morto. Ma il pane sembrava pulito.
Panini da hotdog, ancora tutti chiusi nei sacchetti. Probabilmente induriti. Quando la gente va al ristorante vuole tutto ultrafresco. Una volta, quella sola volta, ero andato con mamma e Moron a un ristorante, un Denny’s a Bolsa Chica, e Moron ha rispedito in cucina il pollo fritto perché diceva che aveva il sapore di «merda riscaldata». La cameriera aveva chiamato il direttore che aveva detto a Moron di non usare quel linguaggio. Moron si era alzato per mostrargli che era più alto di lui, con la mamma che lo tirava per un braccio e gli diceva: «E dai, cowboy, dai». Alla fine il direttore ci aveva dato da mangiare gratis, purché ce ne andassimo.
Per recuperare due confezioni di panini per poco non sono precipitato nel cassonetto e ho rischiato di sporcarmi la maglietta delle schifezze che conteneva.
Ma avevo preso i panini ed erano puliti. Mi sono guardato intorno ancora e sono andato in fondo al vicolo, ho trovato un posticino buio fra altri due cassonetti, ho strappato la prima confezione e ho affondato i denti in un panino.
Sì, un po’ raffermo, ma io l’ho ammorbidito con la saliva e al terzo boccone ha cominciato a sembrarmi buono davvero. Poi mi è tornato in mente il tanfo del cassonetto e mi è venuto da vomitare.
Mi sono alzato, ho passeggiato un po’, ho respirato a fondo e mi sono detto che era solo la mia immaginazione, che dovevo far finta di avere lì dei panini fatti in casa appena usciti dal forno, cotti da qualche mamma delle pubblicità in televisione, quelle che hanno sempre un gran sorriso e un amore speciale per le cose che fanno bene.
Un po’ è servito. Il resto del panino non aveva più un sapore così buono, ma l’ho mandato giù. Poi di nuovo alle montagne.
Durante la salita la strada è diventata più ripida e ho cominciato a passare davanti a delle case. Prati con l’erba tagliata e ogni genere di alberi e piante e fiori, ma neanche un essere umano, non uno. Ora, dopo che sono qui da quattro mesi, mi sono abituato. Alla gente di qui piace stare in casa, specialmente la notte, e se trovi qualcuno in giro dopo il tramonto è probabilmente a caccia di qualcosa.
In cima la Western girava e diventava un’altra strada, che si chiama Los Feliz, e lì le case erano enormi, dietro a muri alti con cancelli di metallo tutti ghirigori e pini e palme. Così doveva essere stata Hollywood quando ci vivevano le star.
Le montagne erano ancora lontane, ma davanti a loro c’era un grande spazio di erba verde e pulita, con un po’ di gente sdraiata, e certi che dormivano anche con il rumore del traffico. Dietro gli alberi, tonnellate di alberi.
Un parco.
Ho aspettato che il traffico rallentasse e ho attraversato di corsa.
GRIFFITH PARK, diceva il cartello.
L’unico parco di Watson è un rettangolo spelacchiato in mezzo alla città con una panchina, un vecchio cannone e una targa d’ottone che dice che è dedicato agli uomini che sono morti in guerra. Questo era diverso. Gigadontico. Da perdersi.